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martedì 31 gennaio 2012

Il poeta del giorno: NAZIK AL MALAIKA

Nazik nasce a Baghdad nel 1922, in una colta e numerosa famiglia da padre editore e poeta e madre poetessa. Inizia a scrivere e pubblicare poesia già al liceo, mentre studia anche musica e recitazione.
La sua ottima conoscenza della lingua inglese le fa ottenere una borsa di studio per gli Stati Uniti, per l’università di Princeton, New Jersey, un ateneo che in quegli anni, anche lì nel cuore dell’occidente, era frequentato quasi esclusivamente da uomini; Nazik era una delle pochissime donne studentesse.
La sua prima raccolta di poesie è del 1947, intitolata L’amante della notte, ed è dello stesso anno come abbiamo visto, la sua poesia, la prima orgogliosamente in versi sciolti, Il colerascritta sull’onda emotiva dei fatti di cronaca che la radio irachena raccontava in quei giorni dell’Egitto, dove una epidemia di colera stava mietendo più di mille morti al giorno.
E’ del 1949 la sua seconda raccolta, intitolata Schegge e cenere, preceduta da una lunga prefazione sulla teoria della metrica della nuova poesia, coraggioso sforzo di riflessione teso a rifondare il senso della forma nella vita nuova dei suoi contemporanei.
Già questo saggio la rese oggetto di numerosi attacchi dei rappresentati della poesia tradizionale. Ma Nazik, forte del suo essere oltre che poeta, una teorica, una grammatica e soprattutto una musicista, si difese abilmente. La sua profonda e solidissima formazione araba le permise di argomentare eloquentemente la difesa della nuova pratica poetica che lei proponeva.
Nonostante questo Nazik continua a nutrirsi di letteratura in lingua inglese e francese. Studia il latino e impara a memoria i versi dei lirici greci. Nel 1951 ritorna ancora negli Stati Uniti per studiare critica letteraria, e poi di nuovo nel 1954 per completare gli studi in Letterature Comparate presso l’Università del Wisconsin.
In questi anni i suoi lavori vengono pubblicati a Beirut, in Libano, dove vive per un po’. Nel 1957 esce la sua terza raccolta, Profondità dell’onda, e nel 1958 anche i suoi versi, insieme a quelli dei poeti della sua generazione, hanno festeggiato commossi la nascita della repubblica.
Rientrata quindi in Iraq, inizia ad insegnare presso l’Università di Baghdad. Nel 1961 sposa Abdul-Hadi Mahbuba, suo collega presso il dipartimento di arabo. Insieme contribuiranno poi a fondare l’università di Bassora, nel sud dell’Iraq. Esce nel 1968 la sua quarta raccolta dal titoloL’albero della Luna, mentre nel 1970 scrive il lungo poema La tragedia della vita e il canto dell’uomo. Nello stesso anno con l’avvento al potere del Baa’th si vede costretta a lasciare il Paese.
Insieme alla sua famiglia si trasferisce in Kuweit, e quando nel 1990 Saddam Hussein invade anche questo Paese, si rifugia in Egitto dove si stabilirà fino alla sua morte, nel 2007.



Io
la notte mi chiede chi sono
sono il segreto della profonda nera insonnia
sono il suo silenzio ribelle
ho mascherato l’anima di questo silenzio
ho avvolto il cuore di dubbi
immota qui
porgo l’orecchio
e i secoli mi chiedono
chi sono
E il vento chiede chi sono
sono la sua anima inquieta rinnegata dal tempo
come lui sono in nessun luogo
continuiamo a camminare e non c’è fine
continuiamo a passare e non c’è posa
giunti al baratro
lo crediamo il termine della pena
e quello è invece l’infinito
Il destino chiede chi sono
potente come lui piego le epoche
e ridòno loro la vita
creo il passato più remoto
dall’incanto di una vibrante speranza
e lo sotterro ancora
per forgiarmi un nuovo ieri
di un un domani gelido
Il sé chiede chi sono
come lui vago, gli occhi fissi nel buio
nulla che mi doni la pace
resto ancora e chiedo, e la risposta
resta nascosta dietro il miraggio
ancora lo credo vicino
al mio raggiungerlo tra
monta
dissolto, dispare

INVITO ALLA VITA 

Arrabbiati, ti amo arrabbiato e ribelle,
rivoluzione cocente, esplosione.
Ho odiato il fuoco che dorme in te, sii di brace
diventa una vena appassionata, che grida e s'infuria.
Arrabbiati, il tuo spirito non vuole morire 
non essere silenzio innanzi al quale scateno la mia tempesta.
La cenere degli altri mi è sufficiente, tu, invece, sii di brace.
Diventa fuoco ispiratore delle mie poesie.
Arrabbiati, abbandona la dolcezza, non amo ciò che è dolce
il fuoco è il mio patto, non l'inerzia o la tregua con il tempo
non riesco più ad accettare la serietà e i suoi toni gravi e tranquilli.
Ribellati al silenzio umiliante 
non amo la dolcezza 
ti amo pulsante e vivo come un bambino 
come una tempesta, come il destino 
assetato di gloria suprema, nessun profumo
può alterare le tue visioni, nessuna rosa...
La pazienza? È la virtù dei morti.
Nel gelo dei cimiteri, sotto l'egida dei versi
si sono addormentati e abbiamo dato calore alla vita
un calore esaltato, passione degli occhi e delle gote.
Non ti amo oratore, ma poeta 
il cui inno esprime ansia 
tu canti, sebbene alterato, anche se la tua gola sanguina
e se la tua vena brucia.
Ti amo boato dell'uragano nel vasto orizzonte 
bocca tentata dalla fiamma, disprezzando la grandine
dove giacciono desiderio e nostalgia.
Odio le persone immobili 
aggrotta le sopracciglia, mi annoi quando ridi
le colline sono fredde o calde, 
la primavera non è eterna 
il genio, mio caro amico, è cupo 
e i ridenti sono escrescenze della vita 
amo in te la sete eruttiva del vulcano 
l'aspirazione della notte profonda a incontrare il giorno 
il desiderio della sorgente generosa di stringere le otri 
ti voglio fiume di fuoco, la cui onda non conosce fondo.
Arrabbiati contro la morte maledetta 
non sopporto più i morti.

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