Arida l'erba questo settembre, secco il fischio
Della quaglia che cerca ansiosa d'acqua fra la mortella palustre,
E il piccolo elicottero della cicala
Si dipana triste nella luce del sole, come un giocattolo
Che scarichi la molla in musica e in tempo.
Essere ora immerso nuovamente
In una visione di fertile primavera, con tutte le sue forze
E le sue vicissitudini, e con la sua falsità, eppure
Con tutti i suoi poteri commensurati al suo sogno,
Come poco opportuna, ma con che logica persuasiva
La nozione fa spola (nella pioggia del tardo pomeriggio, alla fine)
Attraverso l'ordito dell'estate! Avremmo potuto vivere, potremmo vivere -
Così in sussurri mormorano i fili d'erba avvizziti,
Le prugne raggrinzite che cadono dal prugno antico:
Avremmo potuto amare, potremmo amare -
Ritmico come il lamento dei grilli in una notte di gelo.
E la pioggia lenta, la dolce resurrezione della pioggia,
Pioggia di foglia percossa, pioggia di frasca gocciante,
Percorre le strade quasi vi fosse una vena
Da cui tali visioni potessero sorgere ancora.
E così, infatti, fanno. La naturale magia
Delle cose naturali: la pioggia evoca pioggia,
E quella pioggia ancora. Come si leva il lungo gorgheggio
In un barlume spettrale di fruttuosa menzogna!
Da ciò ebbero origine le cose, per poi passare - da ciò
Ebbero origine il sogno, la realtà, la visione, e il fatto.
Io sono ciò che ero, io ero ciò che sono, e vorrei essere ancora
Ciò che non sono più. Per il misero profitto di un momento
Di sensuale soddisfazione ormai perduto,
Il grido ninfeo nel sangue, la lamentosa canzone di pioggia
Dell'amata baciata da colui che l'ama, per la canzone
Di pioggia che dura per tutta la notte,
E il posso amare, posso amare,
Come ben volentieri si sacrificherebbe
La propria integrità, come si fingerebbe
D'essere ciò che più non siamo, invidiando coloro
Che non hanno bisogno di fingere, che in quella loro
Primavera concessa per grazia di natura
Inventano un aprile! Inutile ricordare agli amanti,
Mentre ancora si stringono in personale piacere
Nella loro crisalide notturna da loro stessi intessuta,
Che non è né una fine né un principio,
Né una singola nascita, né morte né apogeo,
E non è esplorazione, non un viaggio, non una scoperta,
Ma il grossolano usufrutto, indifferente e meccanico,
Automatico come il prorompere del seme seminato,
Della vita stessa, sorgente e fogna di tutto.
Ed è inutile, anche, dirlo a se stessi. Si guarda e si invidia,
Si ascolta e si invidia, desiderando soltanto conoscere ancora
Il battito del cuore sempre più rapido, la cieca passione di toccare,
Il mai sazio bisogno di cedere, il soffocamento
Dell'angoscia che si prova nella separazione,
E l'insopportabile soffocamento del desiderio
Di ognuno d'essere fuso nell'altro.
Falso, falso, falso, tutto ciò è falso,
La necessaria inevitabile illusione, il cromatico inganno
Dell'equinozio primaverile e venereo: la mera rubescenza
Della vecchia terra puttana a primavera.
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