mercoledì 31 agosto 2011
Marina Ivanovna Cvetaeva (8/10/1892 - 31/8/1941)
Ai miei versi scritti così presto
che nemmeno sapevo d'esser poeta,
scaturiti come zampilli di fontana,
come scintille dai razzi.
Irrompenti come piccoli démoni
in un sacrario di sogno e d'incenso,
ai miei versi di di giovinezza e di morte,
versi che nessuno ha mai letto!
Sparsi fra la polvere dei magazzini,
dove nessuno li prese o li prenderà,
i miei versi, come i vini pregiati,
avranno la loro ora.
Come spostando pietre
geme ogni giuntura! Riconosco
l'amore dal dolore
lungo tutto il corpo.
Come un immenso campo aperto
alle bufere. Riconosco
l'amore dal lontano
di chi mi è accanto.
Come se mi avessero scavato
dentro fino al midollo. Riconosco
l'amore dal pianto delle vene
lungo tutto il corpo.
Vandalo in un'aureola
di vento! Riconosco
l'amore dallo strappo
delle più fedeli corde
vocali: ruggine, crudo sale
nella strettoia della gola.
Riconosco l'amore dal boato
- dal trillo beato -
lungo tutto il corpo!
Ecco ancora una finestra
dove ancora non dormono.
Forse - bevono vino,
forse - siedono così.
O semplicemente - le due
mani non staccano.
In ogni casa, amico,
c'è una finestra così.
Non candele o lampade hanno acceso il buio:
ma gli occhi insonni!
Grido di distacchi e d'incontri:
tu, finestra nella notte!
Forse, centinaia di candele,
forse, tre candele...
Non c'è, non c'è per la mia
mente quiete.
Anche nella mia casa
è entrata una cosa come questa.
Prega, amico, per la casa insonne,
per la finestra con la luce.
Mathilde Wesendonck (23/12/1828 - 31/8/1902)
Charles Baudelaire (9/4/1821 - 31/8/1867)
La musica
A un bianco astro fedele,
sotto un tetto di brume o nell'etere immenso,
io disciolgo le vele.
Gonfi come una tela i polmoni di vento,
varco su creste d'onde,
e col petto in avanti sui vortici m'avvento
che il buio mi nasconde.
D'un veliero in travaglio la passione mi vibra
in ogni intima fibra;
danzo col vento amico o col pazzo ciclone
sull'infinito gorgo.
Altre volte bonaccia, grande specchio ove scorgo
la mia disperazione!
Corrispondenze
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l'uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari. I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte ed il chiarore.
Esistono profumi freschi come
carni di bimbo, dolci come gli òboi,
e verdi come praterie; e degli altri
corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno
l'espansione propria alle infinite
cose, come l'incenso, l'ambra, il muschio,
il benzoino, e cantano dei sensi
e dell'anima i lunghi rapimenti.
La Bellezza
cui volta a volta ciascuno s'è scontrato,
è fatto per ispirare al poeta un amore eterno e muto come la materia.
Troneggio nell'azzurro quale Sfinge incompresa,
unisco un cuore di neve alla bianchezza dei cigni,
odio il movimento che scompone le linee e mai piango, mai rido.
I poeti, di fronte alle mie grandi pose,
che ho l'aria di imitare dai più fieri monumenti,
consumeranno i giorni in studi severi, perché,
onde affascinare quei docili amanti,
ho degli specchi puri che fanno più bella ogni cosa:
I miei occhi, questi larghi occhi dalle luci eterne.
Il vino dei cenciaioli
dove brulica l'umanità in fermenti di tempesta,
alla luce rossa d'un lampione, col vento
che agita la fiamma e batte sui vetri,
si vede spesso un cenciaiolo, con la testa ciondoloni,
incespicare, urtare come un poeta ai muri,
e senza cura per gli spioni, suoi sudditi,
effondere in progetti di gloria il proprio cuore.
Presta giuramenti, detta leggi sublimi,
atterra malvagi, solleva vittime,
s'inebria degli splendori della sua virtù
sotto il firmamento sospeso come un baldacchino.
Si, questa gente oppressa da pene di famiglia,
consunta dal lavoro e tormentata dall'età,
sfiancata e curva sotto un cumulo di macerie,
confuso vomito dell'enorme Parigi,
se ne torna, improfumata d'odore di botte,
seguita da compari incanutiti di battaglie
e coi baffi pendenti come vecchie bandiere.
Come s'alzano davanti a loro gli stendardi,
i fiori e gli archi trionfali! Che magia solenne!
E come portano gloria al popolo ebbro d'amore
nell'orgia assordante e luminosa
di trombette, di sole, di grida e di tamburi!
Ma il vino è un Pattolo abbagliante che attraversa
la frivola Umanità e trasporta oro!
Per la gola dell'uomo canta le sue gesta
e regna coi suoi dono come i veri re!
Per annegare il rancore e cullare l'indolenza
di tutti i vecchi maledetti che muoiono in silenzio,
Dio, nel rimorso, aveva creato il sonno;
l'Uomo vi aggiunse il Vino, sacro figlio del Sole!
martedì 30 agosto 2011
lunedì 22 agosto 2011
Grace Paley (11/12/1922 - 22/8/2007)
È responsabilità del poeta essere una donna
È responsabilità del poeta stare agli angoli delle strade
consegnando poesie e volantini scritti mirabilmente
o volantini dalla retorica esasperata
inguardabili
È responsabilità del poeta essere pigro andare in giro a vaticinare
È responsabilità del poeta non pagare tasse destinate alla guerra
È responsabilità del poeta entrare e uscire da torri
d’avorio e bilocali in periferia
e campi di granoturco e accampamenti militari
È responsabilità del poeta maschio essere una donna
È responsabilità del poeta femmina essere una donna
È responsabilità di chi è poeta affermare la verità contro il potere come dicono
i Quaccheri
È responsabilità di chi è poeta imparare la verità da chi non ha potere
È responsabilità del poeta dire molte volte: non c’è
libertà senza giustizia e questo significa giustizia
economica e giustizia degli affetti
È responsabilità del poeta cantarlo in tutte le chiavi
originali e tradizionali in cui si cantano e dicono le poesie
È responsabilità del poeta ascoltare le chiacchiere e rimetterle
in giro come i cantastorie che travasano il racconto della vita
Non c’è libertà senza paura e coraggio. Non c’è
libertà se non continuano
la terra e l’aria e l’acqua e se non continuano
anche i bambini
È responsabilità del poeta essere una donna sorvegliare
il mondo e gridare come Cassandra ma stavolta
essere ascoltata.
Jan Neruda (9/7/1834 - 22/8/1891)
- Le rane allo stagno erano assise
I cieli su in alto intente osservando,
La rana maestra la conoscenza
Dell'universo a loro inculcando.
Trattava con esse dei vasti cieli,
Delle faci che vediam lì bruciare
E che gli "astronomi", uomini curiosi
Come talpe scavan per imparare.
Ma se le stelle vanno a disegnare
Ciò che è grande assai piccolo diviene
Venti milioni di miglia per noi
Sono per loro un piede, se conviene.
Così, come quelle talpe scoprirono
(Se creder potete al loro modello)
Nettuno è trenta piedi a noi distante
Venere sol un piede, o men di quello.
Diss'anche che se il Sole frantumiamo
(Fissavan lo sguardo le rane soltanto)
Otteniamo trecento mila Terre
E ne resta ancora in avanzo alquanto.
Il Sole ci aiuta all'uso del tempo,
Lui ruota intorno alla celeste sfera
E divide in turni il nostro lavoro
Per ogni anno dalla mattina a sera.
Cosa sian le comete è arduo a dire,
Son assai strane manifestazioni
Ma non è questa una buona ragione
Per partire in vuote speculazioni.
Non son segni maligni, noi speriamo,
Non c'è motivo per un gran temere,
Come nella storia che raccontò
Lubyenyetsky, quel grande cavaliere:
Apparve un dì nel cielo una cometa,
E allor che ognuno vide il suo splendore,
i ciabattini dentro una taverna,
iniziarono un indegno clamore.
La maestra spiegò lor che le stelle
Che vediamo così tante lassù
Sono in realtà solo lontani Soli
Alcuni verdi, o rossi, ma anche blu.
Se con lo spettroscopio poi osserviamo,
La loro luce altresì ci dimostra
Che quei lontani Soli hanno la stessa
Composizione della Terra nostra.
La maestra tacque. Le rane intorno
Gli occhi di rana roteavan stremate.
"Quali altre cose su quest'universo
Vorreste che vi vengan raccontate?"
"Soltanto un'altra cosa, per piacere"
Chiese una rana, "E' la verità?
Ci son creature vive come noi
Invero, esistono le rane anche là?"
Vasile Alecsandri (21/7/1819 - 22/8/1890)
Ove il vento con collera
Soffia triste, spaventoso
Vidi una croce caduta
Che è scrollata dal vento
Scrollata senza riposo.
D'intorno l'erba non cresce,
E su la croce non si ferma
Nessun uccello dal volo;
Perché sotto si sente
Un gemito doloroso.
Un gemito che ti spaventa.
Quando la notte è senza stelle
Migliaia di fiammelle bluastre
Si vedono misteriosamente danzare
E nel mezzo ad un tratto
Un fantasma si fa vedere
Si fa vedere imprecando
Oh! Pellegrino sciagurato,
Fuggi da quelle orribili contrade
Se il tuo cavallo è di buona razza
Perché nella fossa senza pace
Là sotto la croce giace…
Giace solo un vampiro! "Fermati!…"
. Dalla rupe Nel precipizio profondo
Sono caduti cavallo e cavaliere!
E da allora, giù nel fondo,
Si sentono altri gemiti
Che passano nel vento della notte.
Nikolaus Lenau (13/8/1802 - 22/8/1850)
I
Vedi il sol che là scompare
mentre stanco il giorno posa,
e sé i salci abbandonare
tutti all'onda silenziosa?
Sfuggir devo l'amor mio.
Sgorga, o lacrima, dal ciglio.
Vien dai salci un mormorio,
fra le canne va un bisbiglio.
Nei miei cheti, grandi mali,
tu, o lontana, irraggia lene,
chiara qual fra giunchi e salici
nella sera irraggia Venere.
II
È lo stagno senza un brivido
e la pia luna vi posa
intrecciando ai serti viridi
delle canne smorte rose.
Su quei colli cervi stanno
nella notte alto a guardare,
come in sogno tra le canne
s'alza a volte frusciar d'ali.
L'occhio mio di pianto è grave
e del cor nel piú segreto
va un pensier di te, soave
come a notte prece cheta.
domenica 21 agosto 2011
21 agosto 1911: Vincenzo Peruggia ruba "La Gioconda"
Il furto avvenne fra domenica 20 e lunedì 21 agosto 1911, prima di un giorno di chiusura del museo. L’autore del furto era originario di Dumenza, un paese del nord della provincia di Varese. Emigrato in Francia giovanissimo, aveva lavorato anche per il Louvre. La collaborazione era cessata da qualche tempo, ma Peruggia aveva partecipato ai lavori per la sistemazione della teca di vetro dove era custodito il dipinto, allora nel Salon Carré, e conosceva bene le abitudini del personale del museo.
Le indagini della gendarmeria francese andarono fuori strada e non portarono ad alcun risultato concreto: la responsabilità del fatto fu via via attribuita all’Impero tedesco, a Guillaume Apollinaire (che aveva dichiarato di voler distruggere i capolavori di tutti i musei per far posto all’arte nuova), e al suo amico Pablo Picasso (subito rilasciato).
Nel frattempo, il posto lasciato vuoto dalla Gioconda sulla parete del Louvre, fu preso momentaneamente da un dipinto di Raffaello, il Ritratto di Baldassarre Castiglione. (rif. Wikipedia)
Norbert Conrad Kaser (19/4/1947 - 21/8/1978)
Come una bufera
Antonio Gazzoletti (20/3/1813 - 21/8/1866)
A MIA MADRE Madre , o dolce nome , eh' io non oso Ridir con labbro di rea gioia infetto , Donna, che mi nutristi del tuo petto, E molcesti col canto il mio riposo ; fedele a' miei di raggio amoroso , Che mi schiari (e noi seguo) il cammin retto , Qual renderò mercede i tanto affetto Io , d' ogni ben si povero e bramoso ? Se opn vivessi tu del viver mio , Oh come volentieri io cangerei Co' tuoi grigi capegli il mio crin nero ! Amo Dio in te , te in Dio venero , e spero , E credo eh' ei pur sia dove tu sei — Tanto il mio core t' avvicina a Dio !
Adelbert Von Chamisso (30/1/1781 - 21/8/1838)
Tu anello al mio dito,
mio anellino d’oro,
io ti premo come cosa sacra alle labbra,
al mio cuore.
Avevo finito di sognare
il bel sogno quieto della fanciullezza,
mi trovai sola, persa
nel desolato spazio senza fine.
Tu anello al mio dito,
ora tu mi hai insegnato,
hai aperto al mio sguardo
il valore infinito, profondo della vita.
Voglio servirlo, vivere per lui,
appartenergli intera,
darmi a lui e trovarmi
trasfigurata nella sua luce.
Tu anello al mio dito,
mio anellino d’oro,
io ti premo come cosa sacra alle labbra,
al mio cuore.
sabato 20 agosto 2011
Alfredo Giuliani (23/11/1924 - 20/8/2007)
RESURREZIONE DOPO LA PIOGGIA
Fu nella calma resurrezione dopo la pioggia
l’asfalto rifletteva tutte le nostre macchie
un lungo addio volò come un acrobata
dalla piazza al monte
e l’attimo sparì di volto in volto
s’accesero i fanali e si levò la buia torre
contro la nostra debolezza
i secoli non ci hanno disfatti.
Elio Fiore (2/7/1935 - 20/8/2002)
Io non so come
la notte è lunga
e il tempo un mostro,
ma so che verrà l'alba
e la vita degna
sarà in ogni uomo,
e la terra non tremerà più
e la stella di Betlemme
ricorderà per sempre che Cristo
è Veramente nato
per tutti gli uomini.
Io non so come,
la guerra è sulla terra
e il male sconvolge la Creazione,
ma so che verrà l'alba
e ogni uomo avrà il suo pane
e ogni uomo sulla spiaggia
riconoscerà Cristo che mangia
pesce e parla con lui.
Io non so come,
anche quest'anno è stato orrendo
di massacri e di morti,
ma so che verrà l'alba
eterna, la luce che attende
ogni creatura, fatta a immagine
di Dio, canto dell'universo.
Io non so come,
la notte è lunga
e il tempo un mostro,
ma so che verrà l'alba.
Jules Laforgue (16/8/1860 - 20/8/1887)
Natale scettico
È Natale… Natale?… Notte: uno scampanio
lontano…La mia penna, senza fede, sul foglio
cade. I ricordi cantano: dilegua, ecco, l'orgoglio,
e la tristezza permea tutto l'essere mio…
Ah, voci della notte; ricantano: "È Natale";
da laggiù, dalla chiesa che s'accende all'interno
m'arriva come un dolce rimprovero materno,
e il cuore mi si gonfia tanto da farmi male…
È notte. Ascolto a lungo quel suono di campane…
O famiglia dei vivi, ecco, sono il tuo paria
Nel cui stambugio a tratti giungono sopra l'aria
Le voci d'una festa, commoventi e lontane….
Edward herbert (3/3/1583 - 20/8/1648)
Martin Opitz (23/12/1597 - 20/8/1639)
è tempo:
l'indugio ci nuoce da ambo le parti.
I doni dell'alma bellezza fuggono via via,
ché tutto quel che abbiamo deve sparire.
Lo splendor delle guance sbiadisce,
i capelli si fan grigi,
il fuoco degli occhi si spegne,
l'ardore diventa ghiaccio.
La boccuccia di corallo si sforma le mani come
neve deperiscono e tu invecchi.
Perciò godiamo adesso il frutto della giovinezza,
prima che ci tocchi seguire la fuga degli anni.
Se tu ami te stessa,
allora ama anche me,
dammi, sí che, se dai,
perda anch'io.
venerdì 19 agosto 2011
Ardengo Soffici (7/4/1879 - 19/8/1964)
Sul fianco biondo del Kobilek
Vicino a Bavterca,
Scoppian gli shrapnel a mazzi
Sulla nostra testa.
Le lor nuvolette di fumo
Bianche, color di rosa, nere
Ondeggiano nel nuovo cielo d'Italia
Come deliziose bandiere.
Nei boschi intorno di freschi nocciuoli
La mitragliatrice canta,
Le pallottole che sfiorano la nostra guancia
Hanno il suono di un bacio lungo e fine che voli.
Se non fosse il barbaro ondante fetore
Di queste carogne nemiche,
Si potrebbe in questa trincea che si spappola al sole
Accender sigarette e pipe;
E tranquillamente aspettare,
Soldati gli uni agli altri più che fratelli,
La morte; che forse non ci oserebbe toccare,
Tanto siamo giovani e belli.
Federico Garçia Lorca (5/6/1898 - 19/8/1936)
La notte non vuole venire
perché tu non venga
e io non possa andare.
Ma io andrò
benché un sole di scorpioni mi mangi la testa.
Ma tu verrai
con la lingua bruciata dalla pioggia di sale.
Il giorno non vuole venire
perché tu non venga
e io non possa andare.
Ma io andrò
portando ai rospi il mio garofano morsicato.
Ma tu verrai
nelle cupe cloache dell'oscurità.
Né la notte né il giorno non vogliono venire
perché io muoia per te
e tu per me.
Il silenzio
È un silenzio ondulato,
un silenzio,
dove scivolano valli ed echi
e che piega le fronti
al suolo.
Memento
seppellitemi con la mia chitarra
sotto l'arena.
Quando morrò
tra gli aranci
e la menta.
Quando morrò,
seppellitemi, se volete,
in una banderuola.
Quando morrò!
giovedì 18 agosto 2011
mercoledì 17 agosto 2011
Carlos Drummond De Andrade (31/10/1902 - 17/8/1987)
AMOR - COME PAROLA ESSENZIALE
Amor - come parola essenziale
dia inizio alla canzone e la sostanzi.
Amor guidi il mio verso e, nel guidarlo,
unisca anima e sesso, membro e vulva.
Chi osa dir di lui che é solo anima?
Chi non sente nel corpo l'anima espandersi
fino a sbocciare in un vivido grido
d'orgasmo, in un istante d'infinito?
Il corpo avvinghiato a un altro corpo,
fuso, dissolto, torna all'origine
degli esseri, che Platone vide completi:
é uno, in due perfetto: due in uno.
Integrazione a letto o già nel cosmo?
Dove ha fine la stanza e giunge agli astri?
Che forza qui nei fianchi ci trasporta
a quell'estrema regione, eterea, eterna?
Al delizioso tocco della clitoride,
tutto, ecco, si trasforma, in un baleno.
In un minuscol punto di quel corpo,
la fonte, il fuoco, il miele si concentrano.
La penetrazione via via squarcia le nubi
e svela soli tanto sfolgoranti
che mai l'umana vista ha sopportato,
ma, trafitto di luce, continua il coito.
E continua e si estende in tale guisa
che, oltre noi, oltre la stessa vita,
come attiva astrazione che si fa carne,
l'idea di godere sta godendo.
E in un patir di gaudio, tra parole,
anzi di meno, suoni, ansimi, ahi,
solo un piacere in noi raggiunge l'apice:
é quando l'amore muore d'amor, divino.
Quante volte moriamo l'uno nell'altro,
nell'umida caverna vaginale,
di quella morte che é dolce più del sonno:
la quiete dei sensi, soddisfatta.
Allora si instaura la pace. Pace di dei,
adagiati sul letto, come statue
vestite di sudore, grate per quanto
ad un dio aggiunge l'amor terreno.
ERA UN MATTINO DI SETTEMBRE
Era un mattino di settembre
e
lei mi baciava il membro
Aerei e nuvole passavano
cori neri rimbombavano
lei mi baciava il membro
Il mio tempo di ragazzo
il mio tempo ancor futuro
tutti insieme rifiorivano
Lei mi baciava il membro
Un uccellino cantava,
nel cuore dell'albero, nel cuor
della terra, di me, della morte
Morte e primavera in fiore
si disputavano l'acqua chiara
acqua che accresceva la sete
Lei mi baciava il membro
Tutto quello che ero stato
quanto mi era già negato
non aveva ormai più senso
Solo la rosa contratta
il tallo ardente, una fiamma
e quell'estasi nell'erba
Lei mi baciava il membro
Di tutti i baci era il più casto
in quella purezza spoglia
che é delle cose donate
Non era omaggio di schiava
avviluppata nell'ombra
ma regalo di regina
che diventava cosa mia
mi circolava nel sangue
e dolce e lento e vagante
come bacio di una santa
nel più divino trasporto
e in un fremito solenne
baciava baciava il membro
Pensando al resto degli uomini
che pena avevo di loro
prigionieri in questo mondo
Il mio impero si estendeva
a tutta la spiaggia deserta
e ad ogni senso all'erta
Lei mi baciava il membro
Il capitolo dell'essere
il mistero di esistere
la delusione d'amare
eran tutto onde silenti
spente su moli lontani
e una città si ergeva
radiosa di pietre rare
e di odi ormai placati
e sulla brezza il piacere
veniva a portarmi via
se prima non mi afflosciava
come un capello si alliscia
e mi scombussolava
in cerchi tutti concentrici
nella foschia dell'universo
Baciava il membro
baciava
e se ne moriva baciando
per rinascere a settembre
Aldo Palazzeschi (2/2/1885 - 17/8/1974)
Non so perché quella sera,
fossero i troppi profumi del banchetto...
irrequietezza della primavera...
un'indefinita pesantezza
mi gravava sul petto,
un vuoto infinito mi sentivo nel cuore...
ero stanco, avvilito, di malumore.
Non so perché, io non avea mangiato,
e pure sentendomi sazio come un re
digiuno ero come un mendico,
chi sa perché?
Non avvevo preso parte
alle allegre risate,
ai parlar consueti
degli amici gai o lieti,
tutto m'era sembrato sconcio,
tutto m'era parso osceno,
non per un senso vano di moralità,
che in me non c'è,
e nessuno s'era curato di me,
chi sa...
O la sconcezza era in me...
o c'era l'ultimo avanzo della purità.
M'era, chi sa perché,
sembrata quella sera
terribilmente pesa
la gamba
che la buona vicina di destra
teneva sulla mia
fino dalla minestra.
E in fondo...
non era che una vecchia usanza,
vecchia quanto il mondo.
La vicina di sinistra,
chi sa perché,
non mi aveva assestato che un colpetto
alla fine del pranzo, al caffè;
e ficcatomi in bocca mezzo confetto
s'era voltata in là,
quasi volendo dire:
"ah!, ci sei anche te".
Quando tutti si furno alzati,
e si furono sparpagliati
negli angoli, pei vani delle finestre,
sui divani
di qualche romito salottino,
io, non visto, scivolai nel giardino
per prendere un po' d'aria.
E subito mi parve d'essere liberato,
la freschezza dell'aria
irruppe nel mio petto
risolutamente,
e il mio petto si sentì sollevato
dalla vaga e ignota pena
dopo i molti profumi della cena.
Bella sera luminosa!
Fresca, di primavera.
Pura e serena.
Milioni di stelle
sembravano sorridere amorose
dal firmamento
quasi un'immane cupola d'argento.
Come mi sentivo contento!
Ampie, robuste piante
dall'ombre generose,
sotto voi passeggiare,
sotto la vostra sana protezione
obliare,
ritrovare i nostri pensieri più cari,
sognare casti ideali,
sperare, sperare,
dimenticare tutti i mali del mondo,
degli uomini,
peccati e debolezze, miserie, viltà,
tutte le nefandezze;
tra voi fiori sorridere,
tra i vostri profumi soavi,
angelica carezza di frescura,
esseri pura della natura.
Oh! com'è bello
sentirsi libero cittadino
solo,
nel cuore di un giardino.
-Zz... Zz
-Che c'è?
-Zz... Zz...
-Chi è?
M'avvicinai donde veniva il segnale,
all'angolo del viale
una rosa voluminosa
si spampanava sulle spalle
in maniera scandalosa il décolletè.
-Non dico mica a te.
Fo cenno a quel gruppo di bocciuoli
che son sulla spalliera,
ma non vale la pena.
Magri affari stasera,
questi bravi figliuoli
non sono in vena.
-Ma tu chi sei? Che fai?
-Bella, sono una rosa,
non m'hai ancora veduta?
Sono una rosa e faccio la prostituta.
-Te?
-Io, sì, che male c'è?
-Una rosa!
-Una rosa, perché?
All'angolo del viale
aspetto per guadagnarmi il pane,
fo qualcosa di male?
-Oh!
-Che diavolo ti piglia?
Credi che sien migliori,
i fiori,
in seno alla famiglia?
Voltati, dietro a te,
lo vedi quel cespuglio
di quattro personcine,
due grandi e due bambine?
Due rose e due bocciuoli?
Sono il padre, la madre, coi figlioli.
Se la intendono... e bene,
tra fratello e sorella,
il padre se la fa colla figliola,
la madre col figliolo...
Che cara famigliola!
È ancor miglior partito
farsi pagar l'amore
a ore,
che farsi maltrattare
da un porco di marito.
Quell'oca dell'ortensia,
senza nessun costrutto,
fa sì finir tutto
da quel coglione del girasole.
Vedi quei due garofani
al canto della strada?
Come sono eleganti!
Campano alle spalle delle loro amanti
che fanno la puttana
come me.
-Oh! Oh!
- Oh! ciel che casi strani,
due garofani ruffiani.
E lo vedi quel giglio,
lì, al ceppo di quel tiglio?
Che arietta ingenua e casta!
Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta.
-No! No! Non più! Basta
-Mio caro, e ci posso far qualcosa
io,
se il giglio è pederasta,
se puttana è la rosa?
-Anche voi!
-Che maraviglia!
Lesbica è la vaniglia.
E il narciso, quello specchio di candore,
si masturba quando è in petto alle signore.
-Anche voi!
Candidi, azzurri, rosei,
vellutati, profumati fiori...
-E la violaciocca,
fa certi lavoretti con la bocca...
-Nell'ora sì fugace che v'è data...
-E la medesima violetta,
beghina d'ogni fiore?
fa lunghe processioni di devozione
al Signore,
poi... all'ombra dell'erbetta,
vedessi cosa mostra al ciclamino...
povero lilli,
è la più gran vergogna
corrompere un bambino
-misero pasto delle passioni.
Levai la testa al cielo
per trovare un respiro,
mi sembrò dalle stelle pungermi
malefici bisbigli,
e il firmamento mi cadesse addosso
come coltre di spilli.
Prono mi gettai sulla terra
bussando con tutto il corpo affranto:
-Basta! Basta!
Ho paura.
Dio,
abbi pietà dell'ultimo tuo figlio.
Aprimi un nascondiglio
fuori della natura!
Conrad Aiken (5/8/1889 - 17/8/1973)
Arida l'erba questo settembre, secco il fischio
Della quaglia che cerca ansiosa d'acqua fra la mortella palustre,
E il piccolo elicottero della cicala
Si dipana triste nella luce del sole, come un giocattolo
Che scarichi la molla in musica e in tempo.
Essere ora immerso nuovamente
In una visione di fertile primavera, con tutte le sue forze
E le sue vicissitudini, e con la sua falsità, eppure
Con tutti i suoi poteri commensurati al suo sogno,
Come poco opportuna, ma con che logica persuasiva
La nozione fa spola (nella pioggia del tardo pomeriggio, alla fine)
Attraverso l'ordito dell'estate! Avremmo potuto vivere, potremmo vivere -
Così in sussurri mormorano i fili d'erba avvizziti,
Le prugne raggrinzite che cadono dal prugno antico:
Avremmo potuto amare, potremmo amare -
Ritmico come il lamento dei grilli in una notte di gelo.
E la pioggia lenta, la dolce resurrezione della pioggia,
Pioggia di foglia percossa, pioggia di frasca gocciante,
Percorre le strade quasi vi fosse una vena
Da cui tali visioni potessero sorgere ancora.
E così, infatti, fanno. La naturale magia
Delle cose naturali: la pioggia evoca pioggia,
E quella pioggia ancora. Come si leva il lungo gorgheggio
In un barlume spettrale di fruttuosa menzogna!
Da ciò ebbero origine le cose, per poi passare - da ciò
Ebbero origine il sogno, la realtà, la visione, e il fatto.
Io sono ciò che ero, io ero ciò che sono, e vorrei essere ancora
Ciò che non sono più. Per il misero profitto di un momento
Di sensuale soddisfazione ormai perduto,
Il grido ninfeo nel sangue, la lamentosa canzone di pioggia
Dell'amata baciata da colui che l'ama, per la canzone
Di pioggia che dura per tutta la notte,
E il posso amare, posso amare,
Come ben volentieri si sacrificherebbe
La propria integrità, come si fingerebbe
D'essere ciò che più non siamo, invidiando coloro
Che non hanno bisogno di fingere, che in quella loro
Primavera concessa per grazia di natura
Inventano un aprile! Inutile ricordare agli amanti,
Mentre ancora si stringono in personale piacere
Nella loro crisalide notturna da loro stessi intessuta,
Che non è né una fine né un principio,
Né una singola nascita, né morte né apogeo,
E non è esplorazione, non un viaggio, non una scoperta,
Ma il grossolano usufrutto, indifferente e meccanico,
Automatico come il prorompere del seme seminato,
Della vita stessa, sorgente e fogna di tutto.
Ed è inutile, anche, dirlo a se stessi. Si guarda e si invidia,
Si ascolta e si invidia, desiderando soltanto conoscere ancora
Il battito del cuore sempre più rapido, la cieca passione di toccare,
Il mai sazio bisogno di cedere, il soffocamento
Dell'angoscia che si prova nella separazione,
E l'insopportabile soffocamento del desiderio
Di ognuno d'essere fuso nell'altro.
Falso, falso, falso, tutto ciò è falso,
La necessaria inevitabile illusione, il cromatico inganno
Dell'equinozio primaverile e venereo: la mera rubescenza
Della vecchia terra puttana a primavera.