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giovedì 26 gennaio 2012

Il poeta del giorno: Salvatore Quasimodo


Nato a Modica nel 1901 da Gaetano e Clotilde Ragusa, Salvatore Quasimodo, conseguito il diploma di geometra nel 1919, lascia la Sicilia alla volta di Roma, dove vive, more uxorio, con Bice Donetti, di circa otto anni più anziana di lui.
Sposata nel 1926 la Donetti, nel 1929 – su invito del cognato Elio Vittorini(marito della sorella Rosa) – si sposta a Firenze, dove, tra gli altri, conosceEugenio Montale.
L’anno seguente esce Acque e terre il suo primo volume di liriche, subito accolto favorevolmente da pubblico e critica. Vennero, poi (non se ne citano che alcuni)Oboe sommerso (1932); Erato e Apollion (1936); la raccolta mondadoriana Ed è subito sera (1942); Giorno dopo giorno (1947); La terra impareggiabile (1958) eDare e avere (1966).
Nel 1931, lasciata Firenze, il poeta è a Imperia, dove conosce Amelia Spezialetti, una donna già sposata e di due anni più anziana di lui. Dalla loro relazione, nel 1935, nasce Orietta Quasimodo.
Nello stesso anno, Quasimodo intreccia una burrascosa relazione con Sibilla Aleramo, di ben venticinque anni più anziana di lui.
Troncato il legame con la nota scrittrice, nel 1936 Quasimodo incontra la danzatrice Maria Cumani, di sette anni più giovane di lui: è la scoperta dell’amore autentico, coronato – tre anni più tardi – dalla nascita del figlioAlessandro e – scomparsa nel 1946 la Donetti – dal matrimonio, celebrato nel 1948.
Ma, si sarà capito, Quasimodo era incapace di fedeltà coniugale e il poeta e la sua musa scelsero di vivere divisi. L’ultima donna del Premio Nobel per la Letteratura 1959 è stata la poetessa Curzia Ferrari.
Nel 1968, colpito da un ictus ad Amalfi, Quasimodo viene trasportato a Napoli dove muore.

UN SEPOLTO IN ME CANTA
M'esilio; si colma
ombra di mirti
e il sopito spazio m'adagia.
Né amore accosta
silvani accordi felici
nell'ora sola con me:
paradiso e palude
dormono in cuore ai morti.
E un sepolto in me canta
che la pietraia forza
come radice, e tenta segni
dell'opposto cammino.

LETTERA ALLA MADRE
«Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d'amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo. » - Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. -
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell'ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m'ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater. »

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