La foresta dell’Acquerino
Ebbi un paese pieno di foreste
e botri e feste mattutine, vidi
l’irradiarsi del sole tra le fronde
gelide ancora della notte, udii
parlare il muto come un animale
preistorico. Perché dunque se dico
che io so stare dove non si può
sostare, sembra incredulo il mio detto?
Nulla più dell’imperfezione è
perfetto, nulla più del tragico è
dolce.
Acque cadenti giù di masso
in masso che scherzavano coi venti
furono testimoni che il mutare
era piuttosto stare nell’infrangersi
dello specchio. Il diamante dove appare
e scompare della vita, se lo
estrassi dall’anulare del padre
e lo lasciai cadere e scheggiare
la trasparenza oscura, dove amare
era solo un sospetto, dove mai
io posso ritrovarlo?, oltre il tarlo
della mente, nei suoi oscuri cespiti
dove la luce e il niente che s’incontrano
si toccano a vicenda.
È in frammenti
che il canto inascoltato trova i suoi
più nascosti elementi come persi
sul buio pavimento luccicavano
minuscole le schegge che indicavano
che il cammino non regge se le sue
direzioni non moltiplicano il senso
delle regge della felicità
da abbandonare. È dolore, non polvere
sostare dove l’uomo deve stare.
– Ma tu, o dolcissima, non voltarti,
sei sulla curva estrema del tuo sguardo. –
Segno qui per te un frammento del poema,
pur se in grave ritardo sul suo tema.
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