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domenica 6 maggio 2012

Il poeta del giorno: GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI

Giuseppe Gioachino Belli nasce il 7 marzo 1791 a Roma, da Gaudenzio e Luigia Mazio. A seguito della proclamazione della Repubblica francese (1798), il piccolo Gioachino si rifugia con la madre a Napoli dove, per una serie di vicissitudini, conoscono la miseria più nera. Tornato al potere papa Pio VII, il padre Gaudenzio Belli ottiene un buon incarico nel governo pontificio a Civitavecchia. All'età di tredici anni Gioachino viene mandato a scuola daigesuiti al collegio romano e rimasto presto orfano d'ambedue i genitori, ottenne modesti impieghi privati e pubblici. 
Intorno al 1810, iniziò la sua carriera letteraria e fondò con altri l'Accademia Tiberina, nel quadro della arretratissima cultura locale, divisa fra sonetteria arcadica e gusto dell'antiquaria. 
A venticinque anni sposò senza amore e di malavoglia una ricca vedova, Maria Conti, dalla quale ebbe un unico figlio, Cito. Il matrimonio era d'altronde caldeggiato dal cardinale Consalvi, un potentissimo prelato che trova un'ottima sistemazione per il giovane Belli, sistemazione di cui il poeta aveva estremo bisogno. Raggiunta una discreta agiatezza poté dunque dedicarsi con maggiore impegno agli studi e alla poesia, un periodo durante il quale scrisse la maggior parte dei suoi inimitati "Sonetti romaneschi". 
Compì anche numerosi viaggi, a Venezia (1817), a Napoli (1822), a Firenze (1824) e a Milano (1827, 1828, 1829), stabilendo contatti con ambienti culturali più avanzati e scoprendo alcuni testi fondamentali della letteratura sia illuministica che romantica. 
Nel 1828 si dimise dalla Tiberina e, con un gruppo di amici liberali, apri in casa sua un gabinetto di lettura; ma dopo la morte della moglie (1837), il Belli ripiombò in gravi angustie economiche e morali, oltre a perdere la sua finora inesausta vena poetica. 
Da quel momento in poi, salvo un breve periodo di ripresa avvenuta a seguito della caduta della Repubblica Romana da lui duramente avversata, Belli si chiude in un definitivo silenzio, arrivando addirittura a rinnegare tutta la sua produzione precedente, per paura che questa nuocesse alla carriera del figlio, impiegato nella amministrazione pontificia. Per questo incarica l'amico monsignor Tizzani di distruggerla dopo la sua morte, che avviene a Roma il 21 dicembre 1863. Fortunatamente, l'amico si guardò bene dall'eseguire la volontà del poeta, salvaguardando un inestimabile patrimonio di versi e anzi consegnando il corpus delle opere belliane quasi integralmente, al figlio di lui. 
Quantitativamente superiore a quella in dialetto, ma di scarso rilievo, la produzione poetica in lingua: l'edizione completa, in tre volumi, è uscita soltanto nel 1975, col titolo "Belli italiano". Più interessanti sono l'epistola-rio (Lettere, 2 voll., 1961; Lettere a Cencia, 2 voll., 1973-74), dove affiora qualche tratto dell'"umor nero" belliano; e lo "Zibaldone", una raccolta di estratti e di indici di opere che documenta la conoscenza di iluministi e romantici italiani e stranieri, nonché un interesse assai vivo per la letteratura realistica, Boccaccio compreso.



1- Er povero ladro

Nun ce vò mmica tanto, Monziggnore,
de stà llì a ssede a ssentenzià la ggente
e dde dì cquesto è rreo, quest'è innoscente.
Er punto forte è de vedejje er core.

Sa cquanti rei de drento hanno ppiù onore
che cchi de fora nun ha ffatto ggnente?
Sa llei che cchi ffa er male e sse ne pente
è mmezz'angelo e mmezzo peccatore?

Io sò lladro, lo so e mme ne vergoggno:
però ll'obbrigo suo sarìa de vede
si ho rrubbato pe vvizzio o ppe bbisoggno.

S'averìa da capì cquer che sse pena
da un pover'omo, in cammio de stà a ssede
sentenzianno la ggente a ppanza piena.




2- Er giorno der giudizzio

Quattro angioloni co’ le tromme ‘n bocca
Se metteranno uno pe’ cantone
A ssonà: poi co’ tanto de vocione
Cominceranno a dì: "Fôra a chi ttocca".

Allora vierà ssù ‘na filastrocca
De schertri da la terra a pecorone,
Pe’ ripijà ffigura de perzone,
Come purcini attorno de la bbiocca.

E ‘sta bbiocca sarà Dio bbenedetto,
Che ne farà ddu’ parte, bianca, e nera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto.

All’urtimo uscirà ‘na sonaijera
D’angioli e, come si ss’annassi a letto,
Smorzeranno li lumi, e bbona sera.



3- La bona famija

Mi' nonna, a un'or de notte che viè ttata
Se leva da filà, povera vecchia,
Attizza un carboncello, ciapparecchia,
E maggnamo du' fronne d'inzalata.

Quarche vorta se famo una frittata,
Che ssi la metti ar lume ce se specchia
Come fussi a ttraverzo d'un'orecchia:
Quattro noce, e la cena è terminata.

Poi ner mentre ch'io, tata e Crementina
Seguitamo un par d'ora de sgoccetto,
Lei sparecchia e arissetta la cucina.

E appena visto er fonno ar bucaletto,
'Na pisciatina, 'na sarvereggina,
E, in zanta pace, ce n'annamo a letto.

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