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martedì 8 maggio 2012

Il poeta del giorno: FRANÇOIS VILLON

François Villon nacque a Paris nel 1431. Il suo vero nome era François de Montcorbier ma, rimasto orfano del padre, adottò il nome del suo tutore, Guillaume de Villon. Costui era un benestante ecclesiastico, che permise a Villon di condurre studi universitari fino a diventare "maître ès arts". Si inserì come scrivano nell'ambiente ecclesiastico e giudiziario. Frequentò gli ambienti turbolenti giovanili. Nel 1455 uccise in una rissa un prete e dovette fuggire. Graziato, sei mesi dopo tornò a Paris ma dovette nuovamente lasciare la città per aver compiuto, insieme a cinque compagni, un furto al Collège de Navarre. Il resto della sua vita fu costellata da episodi del genere. Ebbe anche una condanna a morte, commutata in esilio. Dopo il 1463 non si hanno più notizie di lui.
La prima opera di Villon è il Lascito [?](Lais). E' un poema in 320 versi che Villon dichiara scritto il giorno di natale del 1456, che è poi lo stesso del furto al Collège de Navarre. Deluso da una donna amata invano, decide di fuggire ad Angers e di salutare gli amici, cui lascia qualcosa in ricordo. Il poema ha avuto anche, come titolo vulgato, quello di "Piccolo testamento" (Petit testament), secondo la tradizionale formula del lascito burlesco. Interesse quasi solo linguistico hanno le undici ballate che formano Le jargon et jobelin, parole che significano linguaggio artificiale incomprensibile ai non iniziati: gergo. Il gergo della malavita con cui Villon si esercitò a scrivere versi di interpretazione non facile.
Il Testamento (Testament, 1462), o "Grande testamento" per distinguerlo dal "Lais", è composto da poco più di due mila versi, distribuiti in 186 stanze narrative, cui si alternano tre rondeaux e sedici ballate. Alcune di queste furono composte precedentemente, ma sono qui recuperate e funzionano bene all'interno della complessa struttura tematica e formale dell'opera. Villon inserisce i testi anteriori come lasciti testamentari ai vari eredi. Fin dalla prima strofa è il suo odio, che percorre tutto il "Testamento", contro il vescovo Thibaut d'Aussigny che, nel 1461, aveva tenuto Villon nella dura prigione di Meung-sur-Loire. L'esperienza lo aveva gettato nella desolazione, rendendolo sicuro del fallimento della sua vita. A partire da questa analisi di sé stesso, Villon odia e deride con l'animo del povero che sa fare solo il poeta, il mondo dei commercianti usurai speculatori finanziari. La sua è un'immagine efficace della nascente borghesia degli affari che in Francia, dopo la guerra dei cent'anni, sta affermandosi a scapito della nobiltà. Con quei personaggi coesistono i miserabili malviventi che Villon conosce bene, uniti dall'avidità per il denaro. La mancanza di denaro del resto, porta il poeta alla fame, a elemosinare la protezione di qualche potente. Su questo sfondo, il tema dominante è quello della morte. A essa sono legate le splendide Ballata degli impiccati (Ballade des pendus) e Ballata delle dame del tempo che fu (Ballade des dames du temps jadis). In quest'ultima, nel ritornello, è la malinconia per la fugacità della bellezza femminile. A contatto con il pensiero della morte emerge l'acuto attaccamento alla vita, e soprattutto alle donne e all'amore. Il "Testamento" è opera discontinua, i temi si succedono per antitesi e sbalzi, secondo il temperamento risentito del poeta. Alcuni critici hanno voluto distinguere una prima parte (vv. 1-729) seria e malinconica da una seconda parte (vv. 730-fine) più antica e vicina al "Lais". La diversa cronologia non sembra provabile. Villon aderisce a un genere tradizionale, quello del "testamento" o del "lascito" burlesco. All'interno di questa tradizione spicca per originalità e intensità di passione, per concisione e concretezza espressiva.


BALLATA DI BUONA DOTTRINA
Sia che le bolle in giro tu porti,
che imbroglione tu sia o baro ai dadi,
coniator di moneta, e ti scotti
come quelli che son sbollentati
vili spergiuri, privi di fede;
che rubi, arraffi, compia rapine:
dova va il frutto, non lo si vede?
Tutto alle bettole e alle sgualdrine.

Rima, motteggia, strimpella, suona
Cembalo e liuto, abbietto giullare;
fa’ scherzi e imbrogli, piffero intona;
in città e borghi va’ a recitare
e farse e ludi e moralità;
vinci a birilli, a carte, a che fine?
Tanto! ascoltate, poi se ne va 
Tutto alle bettole e alle sgualdrine.

Tu le rigetti tali sozzure?
Va’ campi e prati ad arare e mietere,
cura e governa cavalli e mule,
se in alcun modo non sai di lettere;
se ti accontenti, viver ti è dato.
Ma se strigli la canapa, infine
Non dai il lavoro da te sudato
Tutto alle bettole e alle sgualdrine?

E brache, vesti, giubbe aghettate,
tutti gli stracci vostri, alla fine, 
prima di far peggio, portate
tutto alle bettole e alle sgualdrine.

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