Powered By Blogger

lunedì 15 agosto 2011

Olga Orozco (17/3/1920 - 15/8/1999)

SE PUOI VEDERMI

Madre: è la tua creatura abbandonata che ti chiama,

che abbatte la notte con un grido e la getta ai tuoi piedi come

un sipario calato

affinché tu non rimanga là, dall’altra parte,

dove riesci soltanto con le tue mani di cieca a decifrarmi

in mezzo a un muro di fantasmi fatti di cieca argilla.

Madre: neanch’io ti vedo,

perché adesso sei coperta dalle gelide ombre del tempo minore

e la distanza massima,

e io non so cercarti,

forse perché non ho saputo imparare a perderti.

Ma sono qui, sul mio piedistallo spaccato dal fulmine,

divenuta statua di sabbia,

manciata di ceneri perché tu scriva su di me il segnale,

i segni mediante i quali torneremo a capirci.

Sono qui, con i piedi impigliati nelle radici del mio sangue

in lutto,

senza poter andare avanti.

Allora cercami tu, in mezzo a questo bosco allucinato

dove ogni scricchiolio è il tuo gemito;

i colpi d’ala, una richiesta d’esilio che mi sfugge;

ogni cristallo di neve è un frammento della tua eternità,

e ogni bagliore il lume che accendi affinché io non mi perda nei

cunicoli di questo mondo.

E tutto si confonde.

E la tua vita e la tua morte si mescolano con le mie come le

maschere negli incubi.

E non so dove sei.

Invano ti invoco in nome dell’amore, della pietà o del perdono,

come chi accarezza un talismano,

una pietra che racchiude quella goccia di sangue rappreso

capace di risorgere nel più impossibile dei sogni.

Niente. Solamente un artiglio di feroce tristezza che apre la tela

di altri anni

per riscoprire un tavolo dove tagli il pane di ogni giorno,

una stanza dove lisci con le pazienti mani quelle grinze

che mi incidono l’anima di febbre e di terrore,

un salone che a un tratto si fa bello per il rito di guardarti

passare

avvolta in un alone di fiera tenerezza,

un letto in cui torni dalla morte solo per non darci troppo

dolore.

No. Io non voglio guardare.

Non voglio imparare di nuovo il nome della gioia nel momento

stesso in cui il suo volto è deturpato dagli enormi buchi,

né sentire che il tuo corpo ferma ancora quella disperata

corrente che lo porta via,

un’altra volta ancora,

per circondarmi come fosse per sempre di conforto e d’addio.

Non voglio sentire il rumore del vetro che si infrange,

né i cani che abbaiano alle bende sinistre,

né vedere come non ci sei.

Madre, madre, chi divide il tuo sangue dal mio?,

cos’è questo che si spezza come una corda tesa che batte nelle

viscere?,

che grande pianeta infausto rovescia la sua ombra sopra tutti gli

anni della mia vita?

Oh, Dio! Tu eri tutto quel che sapevo di quel dimenticato paese

da cui provengo,

eri come il rifugio nella lontananza,

come un battito nelle tenebre.

Dove cercare adesso la chiave sepolta dei miei giorni?

Chi interrogare sull’indecifrabile mistero delle mie ossa?

Chi mi ascolterà se tu non mi ascolti?

E nessuno mi risponde. E ho paura.

Le stesse paure di questi trent’anni.

Perché giorno dopo giorno qualcuno si maschera e gioca dentro

di me alle allucinazioni e alla morte.

Io gli cammino accanto e spingo con la sua mano quest’ultima

porta,

quella che la mia nascita non riuscì a chiudere

e che io stessa sorveglio vestita con un abito da sentinella

funeraria.

Lo sai? Sono arrivata molto lontano questa volta.

Ma nel coro di voci che suonano come un mare sepolto

Non c’è quella voce di foglia cupa sempre lacerata dall’amore o

dalla collera;

nelle processioni che improvvisamente s’accendono come

lampade fulminee

non vedo illuminarsi quel colore di spuma dorata sotto il sole;

non c’è nessuna raffica che mi bruci gli occhi col tuo odore

di resina;

nessun calore mi circonda con quella compassione che hai dato

alle mie ossa.

Allora, dove sei?, chi ti impedisce di venire?

So che se tu potessi accarezzeresti la mia testa d’orfana.

Eppure so inoltre che non puoi essere ancora tu sola,

qualcuno che persevera nella propria memoria,

l’imbalsamata attorno alla quale girano come corvi i poveri

brandelli di lutto da essa alimentati.

E se anche rispetti la tremenda condanna di non poter accorrere

al mio appello,

altrove senza dubbio organizzi di nuovo la famiglia,

o metti in ordine le mie ombre,

o tagli quei rami di brina che ornano il tuo grembo per lasciarli

accanto a me un giorno,

o cerchi di cucire con un filo infinito la grande ferita del mio

cuore.

Nessun commento:

Posta un commento