lunedì 31 ottobre 2011
Eduardo De Filippo (1900 - 31/10/1984)
- Penziere mieje...
- 'O pparlà nfaccia
Camillo Sbarbaro (1888 - 31/10/1967)
la mia anima torbida che cerca chi le somigli
trova te che sull'uscio aspetti gli uomini.
Tu sei la mia sorella di quest'ora.
Accompagnarti in qualche trattoria di passoporto
e guardarti mangiare avidamente!
E coricarmi senza desiderio nel tuo letto!
Cadavere vicino ad un cadavere
bere dalla tua vista l'amarezza
come la spugna secca beve l'acqua!
Toccare le tue mani i tuoi capelli
che pure a te qualcuno avrà raccolto
in un piccolo ciuffo sulla testa!
E sentirmi guardato dai tuoi occhi
ostili, poveretta, e tormentarti
domandandoti il nome di tua madre...
Nessuna gioia vale questo amaro:
poterti far piangere, potere piangere con te.
i giorni dell'attesa disperata.
Come l'albero ignudo a mezzo inverno
che s'attriste nella deserta corte
io non credo di mettere più foglie
e dubito d'averle messe mai.
Andando per la strada così solo
tra la gente che m'urta e non mi vede
mi pare d'esser da me stesso assente.
E m'accalco ad udire dov'è ressa
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volto al frusciare d'ogni gonna.
Per la voce d'un cantastorie cieco
per l'improvviso lampo d'una nuca
mi sgocciolano dagli occhi sciocche lacrime
mi s'accendon negli occhi cupidigie.
Chè tutta la mia vita è nei miei occhi:
ogni cosa che passa la commuove
come debola vento un'acqua morta.
Io son come uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei...
E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.
domenica 30 ottobre 2011
Ernesto Murolo (1876 - 30/10/1939)
Ernst Stadler (1883 - 30/10/1914)
Manicomio
Qui la vita di se non sa più nulla
coscienza in fondo al tutto
sprofondata di mille tese.
Qui per nude sale
il corale del Nulla, va suonando.
Qui si giunge alla quiete ed allo scampo,
al focolare, alla stanza da bimbi.
Qui d’umana minaccia non v’è traccia.
Gli occhi sbarrati che, stravolti e attoniti,
dal vuoto pendono,
tremano solo per lo spavento
cui sono scampati.
Ma in più d’uno il terrestre
ancor fa presa sui difettosi corpi.
Il giorno che dilegua
essi non vogliono lasciare.
A convulsioni s’abbandonano,
urlando dentro i bagni i loro strali,
s’accoccolano in gemiti e s’acquattano.
Ma a parecchi di loro il cielo è aperto.
La morte voci delle cose intendono
che li circondano
e la fluttuante musica del Tutto.
Parole estranee dicono talvolta,
che non si intendono.
In silenzio sorridono amichevoli
come fanno i bambini.
Dentro gli occhi rapiti,
che non hanno di corporeo più nulla,
ha sua dimora la Fortuna.
sabato 29 ottobre 2011
Georges Brassens (1921 - 29/10/1981)
lei, tutta nuda, si bagnava,
quando un soffio di tramontana
le sue vesti in cielo portava;
dal folto dei capelli mi chiese,
per rivestirla, di cercare
i rami di cento mimose
e ramo con ramo intrecciare;
volli coprire le sue spalle
tutte di petali di rosa,
ma il suo seno era così minuto
che fu sufficiente una rosa;
cercai ancora nella vigna,
perché a metà non fosse spoglia,
ma i suoi fianchi erano così minuti
che fu sufficiente una foglia;
le braccia lei mi tese allora,
per ringraziarmi un po' stupita,
io la presi con tanto ardore
che lei fu di nuovo svestita;
il gioco divertì la graziosa,
che molto spesso alla fontana
tornò a bagnarsi, pregando Dio
per un soffio di tramontana
Antonino Uccello (1922 - 29/10/1979)
cuoio annodava a canapi di briglia
ficcava paglia in logore bardelle.
Bottiglie testi e chicchere di creta
lampioni a pezzi dentro ragnatele
su graticci di canne e di liane.
Con l’asino svantrato di costane
pane formaggio e vino di barile
non perdeva né fiera né mercato,
aveva un lercio fondaco
sullo stradone, detto del dannato."
quando ci assale noia e forte sangue
donne tentiamo dalle grosse toppe
in cima a strade per terranee case
e l’occhio accarezziamo di lascivia
e paglia d’orzo lunga
dove affondai i miei sonni di fanciullo...
transitavano carri a mattutino
un ambiare di muli.
La forgia ardeva, in cielo era il Triale
intatte stelle
ed acre l’aria d’unghie bruciacchiate.
S’adombravano bestie:
bastava, a indurle a bere,
il fischio di massari incappucciati.
Carlo Pastorino (1887 - 29/10/1961)
e presto sonerà la mezzanotte,
e le ruote del Carro docilmente
ubbidienti al tiro dei Trioni
il loro mezzo giro han già compiuto;
e qui domani donde ora le guardo
altri saranno come me a guardare,
e anche per loro sonerà più tardi
la stessa mezzanotte di stanotte.
E tu non tarderai nel tuo mistero
a scendere quaggiù per dirmi "vieni";
e mi darai la mano come il padre
al debole figliolo da la mano;
ed io ti seguirò docile dove
altri già molti prima conducesti
e altri più molti condurrai domani.
Non ti opporrai ch'io porti questa cetra
che mi donasti nell'età fanciulla
e che sonai nelle solinghe selve
e a notte modulai sotto le stelle,
fedele amica del mio mesto canto.
Tu sai che il canto è sempre un poco mesto,
anche se il cuore, eterno insaziato,
di letizia mirabile trabocchi:
è mestizia del vivere che è morte,
è letizia del morir che è vita.
Questa tua cetra, o Dio, che mi donasti
era lucente allora ed or m'avvedo
che alquanto s'è per l'uso logorata;
ma è pur la stessa, ed è pur sempre quella
che mi donasti come al bimbo dona
la mamma il gioco che lo fa felice.
Sonavo allora la mia dolce cetra,
e per le valli ne vagava l'eco
e nelle notti ne ascendeva al cielo
un lungo accordo che pareva pianto:
soavi accordi al lume della luna
nelle mature notti di settembre;
e il viator pensoso si ristava
a porgere l'orecchio al mio cantare:
ch’ei ne godesse tu ti compiacevi,
perché era grazia tua questa mia cetra,
misteriosa grazia conceduta
a me pastore quando pasturavo
la greggia al bosco e le giovenche al prato,
e tanto pure m'eran le giornate
ch'era preghiera allora quel cantare
e un paradiso mi parea la terra.
Quando verrò, mio Dio, da te chiamato
porterò meco i canti di quel tempo
ch'eran preghiera ed io non lo sapevo;
i canti che non scrissi, perché allora
inchiostro e penna m'eran sconosciuti,
ma i canti che non scrissi li ho serbati
dentro il cuore di semplice pastore
a farne offerta ai piedi del tuo trono,
quando tra breve tu mi chiamerai
al suono grave della mezzanotte.
Walter Raleigh (1552 - 29/10/1618)
venerdì 28 ottobre 2011
Rafael Alberti (1902 - 28/10/1999)
Terzo ricordo
Ancora i valzer del cielo non avevano sposato il gelsomino e la neve,
né i venti riflettuto la possibile musica dei tuoi capelli,
né decretato il re che la violetta fosse sepolta in un libro.
No.
Era l'età nella quale viaggiava la rondine
senza le nostre iniziali nel becco.
Quando convolvoli e campanule
morivano senza balconi da scalare né stelle.
L'età
nella quale sull'omero di un uccello non c'era fiore che posasse il capo.
Allora, dietro al tuo ventaglio, la nostra prima luna.
Secondo ricordo
Anche prima,
molto prima della rivolta delle ombre,
e che nel mondo cadessero piume incendiate
e un uccello potesse essere ucciso da un giglio.
Prima,
prima che tu mi domandassi
il numero e il sito del mio corpo.
Assai prima del corpo.
Nell'epoca dell'anima.
Quando tu apristi nella fronte non coronata, del cielo,
la prima dinastia del sogno.
Allorché,
contemplandomi nel nulla,
inventasti la prima parola.
Allora,
il nostro incontro.
Primo ricordo
"Passeggiava con l'abbandono di giglio che mediti,
o quasi d'uccello che sappia di dover nascere.
Senza vedersi si guardava in una luna a cui il sogno faceva da specchio,
in un silenzio di neve che innalzava i passi.
Affacciata a un silenzio.
Era anteriore all'arpa, alle parole, alla pioggia.
Non sapeva.
Bianca alunna dell'aria,
tremava con le stelle, con il fiore e con gli alberi.
Il suo stelo, la verde sua cintura.
Con le mie stelle
che, di tutto ignoranti,
per scavar nei suoi occhi due lagune
lei in due mari annegarono.
E ricordo...
niente più: morta, sparire. "
Prologo (Tre ricordi dal cielo)
Non aveva la rosa compleanni o l'arcangelo.
Tutto, anteriore al pianto e al belato.
Quando ancora la luce non sapeva
se il mare nascerebbe maschio o femmina.
Quando il vento sognava chiome da pettinare
e garofani il fuoco e gote da infiammare
e l'acqua, delle labbra ferme a cui abbeverarsi.
Tutto, anteriore al corpo, al nome e al tempo.
Allora io ricordo che una volta nel cielo...
Ted Hughes (1930 - 28/10/1998)
I Narcisi scuotono le loro stelle
al vento verdedorato dell'ultimo bagliore.
La loro felicità non ha peso.
La loro letizia è spirito.
Anche stanotte avrà stelle precarie
sul monte della Luna
e brina d'Aprile.
I Narcisi sono intoccabili
nel fruscio di un film muto
che accelera un ballo
e risa di bambini
alla fine della Grande Guerra.
Le loro faccine sono schiacciate
sotto i grandi e molli fiocchi di un pallido nastro.
Ma questa è adesso la felicità
essere grandi -
magre ragazze alla moda,
i capelli all'indietro, le sottili labbra dischiuse, spinte
dentro un freddo sole, le guance splendenti,
delicate come ghiaccio acceso.
Non potranno soffrire.
(Anche nel solenne e gelido
strazio dell'altrui lutto,
saranno al sicuro -
bulbi nella terra
sotto le ciocche della ghirlanda).
Ghirlanda di stelle.
Luci-spiriti nell'orto.
L'aria intera, il giorno intero
vortica dei richiami delle taccole. La stirpe neonata
delle taccole è iniziata
alla taccolità - quella complicata
corte di convenzioni
e precedenze, di sciovinismo e leggi.
Corte che è quasi una prigione - con sbarre
di gridi e di segnali. Carcerieri
sono tutte le altre taccole. Aprendomi una via
tra i grovigli dei rovi
ho pensato di nuovo: mi sentono?
I rovi sono un tale successo, le loro difese
così elaborate,
la loro estensione così intenzionale, sono svegli?
Certo un nimbo di dolore e di piacere
siede sulla loro nuda corona,
la loro offerta sessuale. Certo non sono solo insensibili,
un vano andare a tentoni. E poi perché no?
Non è lo stesso per le cellule del mio sangue?
Le mie cellule cerebrali forse temono o sentono
il bisturi o l'incidente?
Anch'esse incoronano una pianta
di straordinaria insensibilità. E le taccole
si danno segretamente da fare per essere taccole
come se fossero semi nella terra.
L'intera claque è un'ottenebrata religione
intorno alla sintassi e al vocabolario divini
di una muta cellula, che non sa chi siamo
e neppure che siamo qui,
inimminenti come un qualsiasi fiore di rovo.
giovedì 27 ottobre 2011
Frantisek Halas (1901 - 27/10/1949)
La poesia
Migliaia di raggiri e imposture
trappola tesa nel buio arte dello spionaggio
a cui ti abbandoni da solo
seguendo le tue tracce
e condannandoti per i segreti svelati
punito soprattutto da te stesso
le tue liriche libro di lagnanze.
Hai visto agonizzare la poesia
per una parola andata a traverso
non morirà mai tuttavia
un giorno troverai le tue parole
come il terno di una lotteria e l’avrai vinta.
Stretta è la rosa centifoglia dei poeti
ami soltanto quelli con lingua serpentina
di cui metà è querimonia di angeli e metà assalto.
Ultima Tule dove ti allontani con dolcezza infinita
per le cose che hai conosciuto
con voce tutta falsa congedandoti
dalla soave malsania che ti ha perduto.
Giovanni F. Busenello (1598 - 27/10/1659)
le se saluda che nissun ve osserva;
le ve dise: “Signor, ve resto serva”,
o che parole è queste, o che bocconi!
Che mandorle, confetti e marzapani!
Che conditi e pignoli! No ghè gola!
Più de questi me piase sta parola:
co la coa fazzo festa co fa i cani.
Ma pian, che vegna un poco qualche sera,
che a una finestra le possa vegnir
per contarve el so amor, el so patir,
o vedemo che cosa che è “far ciera”!
Quel saludar coll’inchinar la testa,
quel sbassar d’occhi, tra quattro sospiri
me fa desmentegar tutti i raziri
e creder ch’ogni dì sia dì de festa.
Malcomposte in le veste, el pie descalzo,
tutte paurose co una lume in man,
le vien zo della scala a pian a pian,
dalla scala al balcon; e xe in un sbalzo.
Le ve saluda co un’occhià pietosa;
se gh’ingroppa el so cuor per la dolcezza;
amoroso languir per tenerezza
vien all’amante e quella sta pensosa.
Così se sta senza parlar un pezzo,
tutto un tempo se in groppa i sentimenti,
se parla senza tanti complimenti,
chè amor ve i lassa tutti per un bezzo.
“Che feu, signor? Steu come stago mi?”
qua la trà un sospiretto e la repìa:
“Credel, se sé cristiàn, no so che sia
pase: smanio per vu la notte e ‘l dì.
El dì, co no ve vedo, mi son morta,
e la notte per vu sempre avario.
Ho paura che vu me sie contrario,
che me serrè in tel muso un dì la porta.
Moveve a compassion, vardè se v’amo:
che me metto a pericolo evidente
dei mii, dei mii visini e della zente,
ma no ghe penso, e vu sospiro et amo”.
Qua se fa pausa un poco e se respira,
se varda se alcun vien, e su la man
se sol dar qualche baso a pian a pian,
se aspetta che le arfìa, che le respira.
Imagineve vu, che avè provà
e che sé stà in frangente in sto mestier,
come se scotta là, come el pensier
co la mente e ‘l cervel resta insensà.
Le xe delizie queste che rapisse
in estasi el mortal al terzo cielo;
no so più se sia un altro o se ‘l sia ello,
così astratto al so ben la riverisse:
“Cosa aveu? Come steu? Che cosa xe?
No sospirè, son qua”. La trà un soriso
la fenisse de darve el paradiso,
quando co un baso dise: “Respondè”.
E po qua la ve fa copia del petto,
un’iride la forma col so riso,
la ve mostra la porta in tel so viso,
dove senza magnar ghe xe banchetto.
mercoledì 26 ottobre 2011
martedì 25 ottobre 2011
Raymond Queneau (1903 - 25/10/1976)
Yvonne, ti accorgerai che cosa
curiosa che è. Prima di tutto, ce
ne sono angoli interi, di frane:
dove non c'è più niente. Altrove
erbacce che sono cresciute a
casaccio, e non ci si capisce più
niente neppure lì. E poi ci sono
posti che ci sembrano così belli
che uno se li rivernicia tutti
gli anni, una volta d'un colore, una
volta d'un altro. E lì la cosa
finisce per non somigliare più per
niente a quella che era. Senza
contare quello che uno ha creduto
molto semplicemente e senza
mistero quando è successo, e che
poi anni dopo si scopre che non
è tanto chiaro come sembrava,
così come alle volte tu passi tutti
i giorni davanti a un'affare
qualunque senza farci caso e poi
tutt'a un tratto te ne accorgi
Alfonsina Storni (1892 - 25/10/1938)
DUE PAROLE
All’orecchio questa notte mi hai detto due parole
comuni. Due parole stanche
di essere dette. Parole
che da vecchie si son fatte nuove.
Due parole così dolci, che la luna che passava
filtrando tra i rami
nella mia bocca si è fermata. Due parole così dolci
che una formica mi cammina sul collo e resto immobile
non provo nemmeno a scacciarla.
Due parole così dolci
che senza volerlo esclamo: oh, che bella, la vita!
Così dolci e così mansuete
che oli profumati scorrono sul corpo.
Così dolci e così belle
che nervose, le mie dita,
si muovono verso il cielo imitando una forbice.
Vorrebbero le mie dita
tagliare stelle.
PRESENTIMENTO
Ho il presentimento che vivrò molto poco.
Questa mia testa assomiglia a un crogiolo,
purifica e consuma,
ma senza un gemito, senza un accenno di orrore.
Per uccidermi chiedo che un pomeriggio senza nubi,
sotto il limpido sole,
nasca da un grande gelsomino una vipera bianca
che dolce, dolcemente, mi punga il cuore.
PETTO BIANCO
Perché io ho il petto bianco, docile,
inoffensivo, dev’essere che le tante
frecce che vanno nell’aria vagando
prendono la sua direzione e lì si piantano.
Tu, la mano perversa che mi ferisce,
se questo è il tuo piacere, poco ti basta;
il mio petto è bianco, è docile ed è umile:
fuoriesce un po' di sangue... dopo, nulla.
Geoffrey Chaucer (1343 - 25/10/1400)
Quando aprile con le sue dolci piogge ha penetrato fino alla radice la siccità di marzo, impregnando ogni vena di quell’umore che la virtù di dar ai fiori, quando anche Zeffiro col suo dolce flauto ha rianimato per ogni bosco e ogni brughiera i teneri germogli, e il nuovo sole ha percorso metà del suo cammino in Ariete, e cantando melodiosi gli uccelletti che dormono tutta la notte ad occhi aperti la gente è allora presa dal desiderio di mettersi in pellegrinaggio…”
(Geoffrey Chaucer, tratto da I Racconti di Canterbury)
lunedì 24 ottobre 2011
Dario Galli (1914 - 24/10/1977)
AI MIEI
Suona nella chiesina liberata
allegra e triste insieme una campana.
Piange il ricordo e ride, nel mio cuore,
dell'assolata terra mia lontana.
È sera! Il ciel si popola di stelle.
Vittoria arride. Cantano i soldati
di stellette, giberne e di scarponi.
Il bosco s'empie di fantasmi alati.
Mille ricordi, l'uno dopo l'altro,
m'affiorano nel cuore, lentamente.
I vostri volti buoni, gai, sinceri
vorrei in un folle desiderio ardente
baciar mentre m'appaiono davanti...
Ma se mi scuoto muore l'illusione
e mi ritrovo fra bivacchi ed ombre,
il cuore pieno di delusione...
Suona nella chiesina liberata
allegra e triste insieme la campana...
O cara Patria mia, Italia bella!
Italia bella, come sei lontana!...
domenica 23 ottobre 2011
Théophile Gautier (1811 - 23/10/1872)
Ho lasciato cader nel torrente
dal seno un garofano rosso.
Raccoglierlo, ahimè, piú non posso:
ché mi sfugge nell'onda sfuggente.
Perché mai, mio bel fiore amaranto,
ti ho lasciato cader nel ruscello?
A innaffiarti, garofano bello,
non avevo, negli occhi, il mio pianto?
“L’amore è come la fortuna: non gli piace che gli si corra dietro”
sabato 22 ottobre 2011
venerdì 21 ottobre 2011
Jack Kerouac (1922 - 21/10/1969)
Hymn
E quando mi hai mostrato il Ponte Di Brooklyn
Al mattino,
Ah, Dio,
E la gente che scivolava sul ghiaccio per strada,
due volte,
due volte,
due persone diverse
sopraggiunsero, andavano a lavorare,
Così serie e volenterose,
Col loro penoso Daily News
In pugno
Scivolarono sul ghiaccio & caddero
Entrambe nel giro di 5 minuti
E io scoppiai in un dirotto pianto
Fu allora che m'insegnasti a piangere, Ah
Dio, Quel mattino,
Ah, Tu
Con me appoggiato al lampione ad asciugarmi
Gli occhi,
gli occhi,
nessuno sapeva che avevo pianto
e poi che gliene fregava
ma Oh ho visto mio padre
e la madre di mio nonno
e le lunghe file di sedie
e gli astanti che piangevano e il morto,
Ahimè, sapevo che Tu Iddio
Avevi dei piani migliori di quello
Così qualsiasi sia il tuo piano per me
Spaccatore di maestà
Fa che sia un lampo
Una folgore
Fa che sia uno schioccar di dita
Riportami a casa dalla Madre Eterna
Oggi stesso
Sempre a tua disposizione
(e fino a quel dì)
Blues
Parte delle stelle mattutine
La luna e la posta
L'insaziabile X, il dolore delirante,
- la luna Sittle La
Pottle, teh, teh, teh, -
I poeti in vecchie stanze gufose
che scrivono curvi parole
sanno che le parole furono inventate
perché il nulla era nulla
Usando le parole, usate le parole,
le X e gli spazi vuoti
E la pagina bianca dell'Imperatore
E l'ultimo dei Tori
Prima che la primavera si metta in moto
Sono una montagna di nulla
di cui volenti o nolenti disponiamo
Così di notte contratteremo
nel mercato delle parole.
Poesia
Il jazz s'è suicidato
Fate che la poesia non faccia la stessa fine
Non temiate
l'aria fredda della notte
Non date retta alle istituzioni
quando trasformate i manoscritti in
arenaria
non inchinatevi né fate a cazzotti
per i pionieri di Edith Wharton
o per la prosa alla nebraska di ursula major
no, statevene nel vostro giardinetto
& ridete, suonate
il trombone di mollica
& se poi qualcuno vi regala perline
ebree, marocchine, o vattelappesca,
addormentatevi con quella collana al collo
È probabile che facciate sogni più belli
La pioggia non c'è
non ci sono più me
te lo dico io, ragazzo,
affidabile come la merda.
Olindo Guerrini (1845 - 21/10/1916)
Saluto alla patria
Salute, o vive fonti
che al nostro mar correte;
salute, piani e monti
che al nostro sol ridete!
Salute, o patri mia!
Avanti, avanti, via!
O sacra terra nostra,
madre benigna e cara,
la tua beltà ci mostra,
guida il tuo amor ci sia.
Avanti, avanti, via!
Svelaci, o suol beato,
del genio tuo gli arcani,
la gloria del passato,
le spreme del domani,
il fior di poesia...
Avanti, avanti, via!
O terra degli eroi,
madre di sol vestita,
abbi dai figli tuoi
valor, fortuna, vita,
pensiero ed energia...
Avanti, avanti, via!