Jorge Enrique Adoum è nato ad Ambato (Ecuador) nel 1926. Studia Filosofia, Lettere, Giurisprudenza, all’Universidad Central dell’Ecuador prima e poi all'Universidad di Santiago del Cile. Nel 1944 entra a far parte di «Madrugada», movimento che segna una svolta nella storia della poesia ecuadoriana, accogliendo le innovazioni delle prime e delle seconde avanguardie e proclamandosi politicamente di sinistra. Tra il 1945 e il 1947, durante il suo soggiorno in Cile, lavora come segretario personale di Pablo Neruda. Tornato in Ecuador ricopre molti incarichi nel settore della cultura, fra cui direttore editoriale della Casa della Cultura Ecuadoriana. Nel 1952 viene insignito col Premio Nazionale di Poesia, e nel 1960 riceve a Cuba il prestigioso premio Casa de las Américas.
Le sue prime raccolte, "Ecuador amargo" (1949) e "Los cuadernos de la tierra" (1952-62), riecheggiano le metafore telluriche di Neruda e il clima del Canto General, ma già in "Curriculum mortis" (1968) e in "Prepoemas en postespañol" (1979) si definisce il suo particolare linguaggio e i suoi modi specifici di manipolazione e ricostruzione dei vocaboli. I suoi non sono mai semplici giochi di parole (spesso difficilmente traducibili), ma una forma di ribellione e di contestazione di ciò che chiama «subdemocracias cuarteleras» (sottodemocrazie da caserma).
Il suo romanzo "Entre Marx y una mujer desnuda" (1976), è forse il migliore esempio di romanzo sperimentale in Ispanoamerica dopo "Rayuela" di Julio Cortázar. Come "Rayuela", il romanzo di Adoum si costruisce sotto gli occhi del lettore e con la partecipazione del lettore stesso, ed esibisce ludicamente i processi di costruzione e maturazione della materia narrativa. L'elemento ludico tuttavia non è mai separato da una seria ricerca di conoscenza, e il lettore da una parte è coinvolto emotivamente nelle vicende narrate, dall'altra è costretto a un costante esercizio di riflessione. Dal romanzo è stato tratto di Camilo Luzuriaga un bellissimo film dal titolo omonimo.
Adoum è anche autore di teatro ("El sol bajo las patas de los caballos", 1976), e di una interessante, acuta e talvolta pungente opera critica.
In occasione della commemorazione (30 anni) della morte di Guevara è stato invitato a Cuba a Casa de las Americas a tenere un discorso. In quell’occasione ha scritto e letto uno struggente e bellissimo poema dal titolo “Che: fugacità della sua morte”.
È tornato alla poesia con lo straordinario “El amor desenterrado”, ispirato allo sconvolgente ritrovamento di una coppia di amanti del periodo paleo indio in Ecuador.
Le sue opere sono tradotte e pubblicate in molti paesi e inserite in innumerevoli antologie.
Agli inizi del nuovo secolo ha pubblicato, prima a Cuba e poi in Ecuador, "De cerca y de memoria: Lecturas, autores, lugares", un libro di ricordi di scrittori e artisti dell'America Latina e dell'Europa.
Ha tradotto in spagnolo la poesia di T.S. Elliot, Langston Hughes, Jacques Prévert, Yannis Ritsos, Vinícius de Moraes, Nazým Hikmet, Fernando Pessoa, Joseph Brodsky, e Seamus Heaney.
Ha partecipato per Casa della poesia a "Lo spirito dei luoghi. Latinoamerica poesia" (1998), "Parole di Mare" (2000), "Il cammino delle comete" (2002), "Sidaja" (2002), "Napolipoesia" (2002), "Latinoamericapoesia" (2004) ed è stato più volte ospite della Casa.
Per la Multimedia edizioni ha pubblicato la bellissima raccolta "L'amore disinterrato e altre poesie" (2002) alla quale è stato attribuito il Premio Sidaja a Trieste, nel 2002.
Il 3 luglio 2009 si è spento a Quito, in Ecuador.
L'ATTIMO SOSPESO
Quando il marinaio di Triana, con la bocca tra le mani,
gridò: “Terra!”, e l’Ammiraglio credette terminata la sua avventura,
l’astronomo che spiava molti secoli la morte di una stella,
il copista sul punto di trovare la pagina in cui aveva perso il suo destino,
il geometra che tirava i dadi per calcolare la superficie esatta della terra,
il contadino che scavava il solco con i denti per sentire vicino al labbro il seme,
la ragazza che sollevava ad ogni istante la sua gonna per vedere se la donna era già arrivata,
il pastorello impegnato al crepuscolo con un agnellino tra le gambe,
il poeta attonito senza sapere dove erano andate le parole che lo abbandonarono,
la sarta che conservava le sue lacrime imbastendole nell’orlo della tunica,
la sentinella che aspirava a custodire l’alcova della regina perché sognare non basta,
la monaca che cercava negli avanzi sillabe di conversazione per non passare la vita da sola,
il confessore sul punto di invidiare la colpa di peccati che altri gli inventavano,
il soldato avido alla cui lussuria territoriale il Papa provvedeva,
la tessitrice che si dissolveva negli occhi disegni come polvere, come pianto, come sfilacciatura,
il muratore di fronte alla parete in cui aveva mescolato ruzzoloni di bambino con cadute dell’anima,
il carceriere che non capiva perché il prigioniero volesse uscire se fuori piovigginava,
la partoriente che espiava con grido altissimo la colpa di quell’appuntamento,
il neonato che cominciava a morire tutta la vita contandosi gli anni,
il chirurgo che con il trapano voleva accertare cosa pensava la sua signora,
il cavaliere che misurava il tempo impiegato dal nitrito ad arrivare al nuovo mondo,
e l’indovino che andava a predire questa sventura,
sospesero di colpo quello che ognuno faceva,
ma quando il capitano dopo lo schiaffo alla ragazza india la fece gettare ai cani
per non essersi lasciata convincere a conoscere altro maschio che suo marito,
ripresero le loro occupazioni abituali nel punto
in cui quelle gesta di mare le avevano interrotte.
POTREBBE ESSERE ANCHE
Un bar. Di notte, è evidente.
Potrebbe essere anche un cabaret, o un teatro.
Musica di pianoforte. O un bandoneón. Chissà una chitarra.
Forse, pure, una canzone. Dipende:
un tango, un bolero, una nostalgia greca,
qualcosa di impalpabile, come un blues, irraggiungibile
come le cosce di questa ragazza di Venezia
che ti guarda dal fondo del tuo bicchiere.
Ricordare, quando uno è o sta solo, fa più male
che immaginare: questo è quello che vogliamo dimostrare.
Il microfono amplifica la vera voce, l’assenza:
si tratta del viaggio a una donna come a una città
alla quale non si giunge da invisibile, da lontano.
E se uno giungesse e stesse lì, in lei,
si tratterebbe, con questa musica, di una separazione
che sarà per sempre, come sempre.
A chi dare la colpa? Sono destino il paese
che non avesti, la donna in cui non entrasti?
Una compagnia – qualsiasi–, più o meno coniugale,
o da poco incontrata, dico più o meno duratura,
mai l’amata non cercata, mai la presentita,
distruggerebbe questa sensazione agrodolce o dolceamara
di ciò che non è, ciò che non fu, senza che importi
la voce o il volto che le appartengono,
né l’età che le sue gambe sostengono:
ciò che non può essere perché se fosse non sarebbe.
E in fondo, farebbe male che non facesse male.
Persino che non facesse male più di quanto fa male.
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