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lunedì 19 marzo 2012

Il poeta del giorno: UMBERTO SABA

Nasce a Trieste, in via Pondares, il 9 marzo 1883, da Felicita Rachele Coen ed Ugo Edoardo Poli. La madre, ebrea, viene abbandonata dal marito prima della nascita del bambino; Saba conoscerà il padre solamente in età adulta, rifiutandosi tuttavia di adottarne il cognome (quello attuale è un omaggio alla razza ebraica, nella cui lingua "saba" significa "pane").
Dopo aver abbandonato gli studi, lavora da praticante in una casa di commercio e come mozzo su di un mercantile: militare nel corso della prima guerra mondiale, non verrà mai però chiamato al fronte.
Esordisce nella poesia con l'edizione privata de "Il mio primo libro di poesia" (1903), ma la sua autentica prima uscita pubblica è del 1911 con "Poesie", introdotte da Silvio Benco.
Seguono, ambedue nel 1912, i componimenti di "Coi miei occhi" ed il saggio "Quello che resta da fare ai poeti", pubblicato soltanto postumo nel 1959.
Alla fine delle attività belliche diviene proprietario d'una libreria antiquaria, cosa che si rivelerà negli anni assai giovevole pure come mezzo di sostentamento: nel '21 pubblica il celebre "Canzoniere", che raccoglie la produzione poetica di vent'anni, cui fanno seguito "Preludio e canzonette" (1923), "Autobiografia" ed "I prigionieri" (1924), "Figure e canti" (1926), "Preludio e fughe" (1928).
Peggiora intanto la sua sempre precaria salute psichica, tanto da indurlo a sottoporsi a serrata terapia analitica dal '29 in avanti: inoltre, la promulgazione delle leggi razziali lo costringe a cercar rifugio prima a Parigi, poi a Firenze, dove gode della protezione di Montale e di altri intellettuali antifascisti.
Appaiono intanto le raccolte di liriche "Parole" (1934), "Ultime cose" (1944) e la seconda edizione del "Canzoniere" (1948), che gli guadagna il consenso pressoché unanime della critica. Ciò malgrado, le crisi di depressione non accennano a perdere d'intensità e lo obbligano a rifugiarsi nel quasi totale isolamento. Ricoverato presso una clinica romana nel '53, alla morte della moglie Lina (avvenuta nel '56) si stabilisce a Gorizia ; ivi si spegne, l'anno successivo.


La Malinconia
 
Malinconia
la vita mia
struggi terribilmente;
e non v'è al mondo, non c'è al mondo niente
che mi divaghi.
 
Niente, o una sola
casa. Figliola,
quella per me saresti.
S'apre una porta; in tue succinte vesti
entri, e mi smaghi.
 
Piccola tanto,
fugace incanto
di primavera. I biondi
riccioli molti nel berretto ascondi,
altri ne ostenti.
 
Ma giovinezza,
torbida ebbrezza,
passa, passa l'amore.
Restan sì tristi nel dolente cuore,
presentimenti.
 
Malinconia,
la vita mia
amò lieta una cosa,
sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa,
ch'altro non spero.
 
Quando non s'ama
più, non si chiama
lei la liberatrice;
e nel dolore non fa più felice
il suo pensiero.
 
Io non sapevo
questo; ora bevo
l'ultimo sorso amaro
dell'esperienza. Oh quanto è mai più caro
il pensier della morte,
 
al giovanetto,
che a un primo affetto
cangia colore e trema.
Non ama il vecchio la tomba: suprema
crudeltà della sorte.
 
***
 
Fanciulle
 
Maria ti guarda con gli occhi un poco
come Venere loschi.
Cielo par che s'infoschi
quello sguardo, il suo accento è quasi roco.
 
Non è bella, né in donna ha quei gentili
atti, cari agli umani;
belle ha solo le mani,
mani da baci, mani signorili.
 
Dove veste, sue vesti son richiami
per il maschio, un'asprezza
strana di tinte. È mezza
bambina e mezza bestia. Eppure l'ami.
 
Sai ch'è ladra e bugiarda, una nemica
dei tuoi intimi pregi;
ma quanto più la spregi
più la vorresti alle tue voglie amica.


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