Simon Armitage è nato nel 1963 ed è una delle figure di punta della nuova poesia europea. Seguito con incondizionati consensi della critica fin dal suo esordio avvenuto nel 1989 con la raccolta Zoom!, ha pubblicato a soli trentotto anni una raccolta di Selected Poems, appena tradotte in Italia da Luca Guerrieri per Mondadori. Ha pubblicato nove volumi di poesia e scrive anche per la radio, la televisione e per il cinema. Attualmente insegna alla Manchester Metropolitan University e ha pubblicato con Robert Crawford la Penguin Anthology of Poetry from Britain and Ireland since 1945. Stanno per uscire per la Faber & Faber due suoe nuove raccolte di poesie. E’ stato premiato al London’s Royal Festival Hall nel 1993. La poesia di Armitage si afferma per la forte aderenza al reale, che si realizza sia sul piano del linguaggio - prevalentemente di registro basso, parlato -, sia su quello dei contenuti - nei quali il poeta privilegia situazioni quotidiane, di nitida concretezza, segnate dall'epoca. Il suo procedere è spesso narrativo - con felicissimi passaggi da brevi flash a vere e proprie soluzioni poematiche - e il suo campo d'azione è vastissimo, poiché sa catturare con inesausta energia personaggi, luoghi ed eventi che si accavallano sulla pagina, e incalzano nel dettato con singolare efficacia e ricchezza di suggestioni. Ma non di meno il suo stile è raffinato, il suo controllo stilistico impeccabile. Un grande merito di Armitage, che è anche una indicazione precisa per la poesia d'oggi, è dunque nella sua capacità di coniugare un elevato livello di leggibilità con l'esattezza della parola e della forma. E tutto questo mentre ci racconta, con l'acutezza e il sentimento del poeta che osserva e partecipa, con disincanto e a volte con violenza, la nostra storia, il mondo in cui siamo immersi
Non È Quello Che Fai È Quello Che Fa A Te
Non ho vagato per l’America in lungo e in largo
con un dollaro da spendere, un paio
di Levi’s stracciati e un coltello a serramanico.
Ho vissuto con i ladri a Manchester.
Non ho camminato con il passo felpato per il Taj Mahal
a piedi nudi, ascoltando l’intervallo tra
un passo e l’altro, passo che sollevava e abbassava
la sua impronta sul pavimento di marmo. Ma
ho fatto saltare sassi piatti sul Black Moss un giorno
così immobile da udirne ogni sussulto
da sponda a sponda. Sentire l’inerzia di ogni sasso
dissiparsi sull’acqua prima di affondare.
Non ho giocherellato con la corda di un paracadute
appollaiato sull’orlo di un ultraleggero
ma ho tenuto tra le braccia la testa ciondolante di un
ragazzo
al centro diurno, accarezzato le sue mani grassocce.
E allora penso che quel groppo in gola
e quel sentire come una piccola cascata
dentro di noi siano tutti e due parte
di quel senso di qualcosa d’altro. Quel sentimento,
voglio dire.
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