Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio; Alessandria, 14 agosto 1876 – Roma, 13 gennaio 1960) è stata una scrittrice italiana. Figlia di Ambrogio Faccio, professore di scienze, e di Ernesta Cottino, casalinga, era la maggiore di quattro fratelli. Trascorse l'infanzia a Milano fino all'età di 12 anni, quando il padre ottenne un posto di dirigente al porto di Civitanova Marche. L'adolescenza della giovane Rina fu tutt'altro che felice: il matrimonio dei genitori fu un fallimento e la madre, psichicamente instabile, tentò il suicidio gettandosi dal balcone di casa. Fu internata in una casa di cura dopo alcuni anni, quando Rina era già sposata. La giovane reagì con un atteggiamento anticonformista e a 16 anni cominciò a lavorare come bibliotecaria nella fabbrica del padre. Giovanissima, fu stuprata da un collega nella vetreria del padre. Fu poi costretta ad un matrimonio riparatore con l'uomo, Ulderico Pierangeli, di cui era rimasta incinta, gravidanza che non portò a termine per un aborto spontaneo. Prigioniera di un matrimonio non voluto e di un marito manesco, cercò una via di fuga in una nuova gravidanza, che portò alla nascita del figlio Walter. Ma la nascita del bambino non migliorò le cose e Rina tentò di avvelenarsi. Cominciò così a scrivere racconti e articoli e a collaborare con riviste femministe (Vita moderna), nonostante il suo titolo di studio fosse solo la licenza elementare. Trasferitasi a Milano con la famiglia del marito, nel 1899 le fu offerta la direzione della rivista Italia femminile. Desiderosa di separarsi, fu obbligata con le percosse a rimanere. Solo nel 1901 abbandonò il marito e il figlio, condizione per la separazione, e cominciò una nuova vita. Il suo allontanamento dal figlio fu una decisione molto sofferta, di cui sono testimonianza le pagine di Una donna. Si legò dapprima al poeta Damiani; ebbe poi una lunga relazione con lo scrittore Giovanni Cena, direttore della rivista letteraria Nuova Antologia. Nel 1906, pubblicò il suo primo libro, Una donna, fortemente autobiografico. Con quest'opera la scrittrice assunse il nome di Sibilla Aleramo. Durante la prima guerra mondiale conobbe Dino Campana. Il poeta non era al fronte, ufficialmente in cura a causa di una nefrite, ma in realtà perché già era stata diagnosticata la sua malattia mentale quando era stato in cura nell'ospedale di Marradi nell'estate del 1915. I due erano molto diversi: lei estremamente mondana e frequentatrice di salotti, lui schivo e appartato. Per Campana, poi, la relazione era essenzialmente di tipo fisico. Il rapporto fu quindi estremamente tormentato, e i due giunsero spesso a battersi. La Aleramo lo portò anche da un noto psichiatra dell'epoca, visita che segnerà la fine del rapporto. Il rapporto tra i due è il soggetto del film Un viaggio chiamato amore (2002), diretto da Michele Placido, con Laura Morante e Stefano Accorsi. Nel 1919 pubblicò Il passaggio e nel 1921 la sua prima raccolta di poesie, Momenti. Nel 1920 è a Napoli, dove scrive Endimione, dedicato a D'Annunzio. L'opera, ispirata alla sua vicenda amorosa con il giovane atleta Tullio Bozza, finita tragicamente con la morte di lui, riscosse successo nella rappresentazione parigina, ma non in quella torinese, dove al teatro Carignano fu fischiata. Femminista, pacifista e comunista, la scrittrice Sibilla Aleramo non si adeguò a ruoli o immagini femminili tradizionali. Ebbe anche alcune relazioni lesbiche, di cui la più nota è quella con l'attrice Eleonora Duse, anche lei di orientamento bisessuale[citazione necessaria]. Ciò portò intellettuali misogini come Giuseppe Prezzolini a definire la Aleramo "lavatoio sessuale della cultura italiana". Nel 1936 si innamorò di Franco Matacotta, uno studente di quarant'anni più giovane di lei, a cui restò legata per 10 anni. Al termine della seconda guerra mondiale si iscrisse al PCI, impegnandosi intensamente in campo politico e sociale e collaborando con l'Unità. Morì a Roma nel 1960, dopo una lunga malattia. Aveva 83 anni.
SON TANTO BRAVA
Son tanto brava lungo il giorno.
Comprendo, accetto, non piango.
Quasi imparo ad aver orgoglio
quasi fossi un uomo.
Ma, al primo brivido di viola in cielo
ogni diurno sostegno dispare.
Tu mi sospiri lontano:
<Sera, sera dolce e mia!>
Sembrami d'aver fra le dita la
stanchezza di tutta la terra.
Non son più che sguardo,
sguardo sperduto, e vene.
ROSE CALPESTAVA
Rose calpestava nel suo delirio
e il corpo bianco che amava.
Ad ogni lividura più mi prostravo,
oh singhiozzo invano di creatura.
Rose calpestava,
s'abbatteva il pugno
e folle lo sputo
sulla fronte che adorava.
Feroce il suo male
più di tutto il mio martirio.
Ma, or che son fuggita,
ch'io muoia,
muoia del suo male.
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