Nel 1989 vince la cattedra di poesia a Oxford. Nobel nel 1995, come poeta, viene considerato un esponente del regionalismo letterario, con un forte richiamo alle tradizioni, alla terra, al mito delle origini.
Nella raccolta di saggi Preoccupazioni, riferendosi alla propria poesia scrive: “penso alle tematiche personali e irlandesi come fossero le vocali e la consapevolezza letteraria nutrita dall’inglese le consonanti”. Alla sua opera prima Deat of a Naturalist (1966) seguirono Door into the dark (1969), Wintering out (1972), North (1975).
Con Field work (1979) avvenne una svolta nella sua poesia. Station Island (1984) raccolta di poesie che prende il nome da un luogo di pellegrinaggio cattolico nella contea di Donegal. Viaggio allegorico narrato attraverso una polifonia di voci.
Il poema è inteso come uno scontro tra due imperativi: restare fedele all’esperienza storica collettiva, o mantener fede alla propria soggettività.
L’incontro con le ombre della sua vita personale che appartenevano alla realtà irlandese: l’archeologo, il militante dell’IRA, Joyce stesso, dovevano “articolare le rivendicazioni dell’ortodossia e la necessità di respingere quelle stesse rivendicazioni”.
Tra gli anni 70 e 80, quando le tensioni politiche tra cattolici e gli ultra dell’Ulster erano all’apice, il poeta affascinato dal ritrovamento archeologico di corpi di duemila anni fa scoperti mummificati nelle torbe danesi con chiari segni di morte violenta, compone poesie come “The tollund man” (in “Wintering out”) nelle quali associa il destino delle vittime sacrificali dell’età del ferro ai ‘martiri’ politici dell’Irlanda del Nord. Opere che sollevarono numerose critiche: si pensi al giudizio di Neil Corcoran, che giudicava equivoche tali mitologie.
La migliore poesia di Heaney è quella lirica, che riprende la freschezza e il diretto contatto con la natura e l’antica tradizione gaelica. Del 1991 è “Seeing things”, in cui è un ritorno vigoroso alla fisicità, alla fedeltà a “the grain of things”, alla venatura e alla fibra stessa del mondo.
Vangando
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Quatta quatta con il colpo in canna
Fra medio e pollice sta la penna. Sotto la finestra un raspo netto all'internarsi Della vanga nel terreno ghiaioso: È mio padre che dissoda. Guardo in basso, Finché sotto sforzo, a groppa curva Sulle aiuole, torna venti anni indietro Piegandosi a tempo per i solchi Di patate che vangava. A posto sul vangile lo scarpone, Saldo fulcro del manico il ginocchio, Cavava gambi, ficcava a fondo la lucente lama Per spargere patate nuove che noi raccattavamo Adorandone fresca la durezza nella mano. Per Dio, il vecchio ci sapeva fare Con la vanga. Come il suo vecchio. Mio nonno in una giornata tagliava più torba Di chiunque altro nella torbiera di Toner. Una volta gli portai il latte in una bottiglia Sciattamente turata con la carta. Si raddrizzò per bere e subito riprese Con cura a fare tacche e fette, spalandosi le zolle Dietro le spalle, sempre più a fondo A cercare quella buona. Scavando. Il freddo afrore di terriccio di patate, risucchio e stacco Da torba in guazzo, secco taglio della lama Nelle radici vive, mi si risvegliano in testa. Ma non ho vanga per seguire uomini come loro. Fra medio e pollice Quatta quatta sta la penna. Sarà la mia vanga.
Il Fusto di pioggia
Capovolgi il fusto e quello che succede è una musica che non avresti sperato mai d'udire. Lungo il secco stelo di cactus scorrono acquazzoni, cascate, rovesci, risacche. Ti lasci attraversare come un condotto d'acqua, poi lo scuoti di nuovo leggermente ed ecco un diminuendo che corre per le sue scale come una grondaia gemente. Di seguito, uno spruzzo di stille da foglie irrorate, sottile umidità d' erba e margherite; poi mille luccichii come soffi di brezza. Capovolgi ancora il bastone. Quel che succede non è sminuito dall'essere accaduto una volta, due, dieci, mille volte prima. Che importa se tutta la musica che traspare è un cadere di pietriccio e semi secchi lungo un fusto di cactus! Sei come l'uomo ricco accolto in paradiso attraverso il timpano di una goccia di pioggia. E adesso riascolta. |
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